Jeler Ridden, Le origini della follia

« Older   Newer »
  Share  
Dreyght
view post Posted on 6/11/2012, 22:42




Jeler si prese tutto il tempo necessario per guardarsi intorno attentamente.
«Che posto di merda!».
In quello stesso momento da qualche parte nel mondo qualcuno probabilmente se ne stava in una locanda pulita a bere una birra doppio malto, provandoci con una cameriera prosperosa mentre si stava gustando la sua bistecca dalla cottura perfetta; ovviamente in quel luogo il tiepido sole primaverile abbracciava e coccolava tutte le umili creature di Dio e il canto delle prime rondini di ritorno dalla migrazione allietava gli animi. C’era anche la possibilità che quel bastardo ricevesse un tovagliolo con una chiave e la scritta “ti aspetto di sopra”, firmata dalla serigrafia di un paio di labbra rosse.
Perché -si sa- la vita è ingiusta, ma non con tutti. Un po’ come alcune professoresse del liceo.
Maledicendo tutti i clienti e tutte le cameriere di tutti i bar di tutti i mondi possibili, Jeler strappò l’ultima freccia che gli attraversava lo sterno: sulla punta tricuspide era rimasto incastrato un pezzo di pleura del polmone destro.
«Capisci ora?» disse gettando via freccia e carne annessa «Dopo un po’ questa roba inizia a diventare davvero fastidiosa». Afferrò il bicchiere sul tavolo sopra cui era seduto e lo portò alle labbra, bevendo un lungo sorso di birra calda come piscio.
«Ogni tanto ripenso alle mie montagne, ai bei tempi della mia giovinezza, al vecchio e pigro sanbernardo e alle caprette; eheh, quante ne abbiamo combinate io e Clara! E i bimbi sperduti, quasi dimenticavo i bimbi sperduti. Devi scusarmi, penso di avere un calo di zuccheri. Ma non preoccuparti poi mi passa, starò meglio quando smetterò di sanguinare e il polmone la finirà di collassare ogni volta che respiro».
Si sporse leggermente dal tavolo e raccolse la spada, dandole un forte strattone per sfilarla da dov’era incastrata.
«Il punto è che, va bene, uccidere è bello e gratificante: a chi non piace? Ma quando diventa l’unico scopo nella vita il lavoro non è più divertente; insomma, è lavoro. Se avessi voluto un lavoro avrei chiesto al convento di suor Germana».
Si perse per un istante a fissare il filo micidiale della sua katana, ancora grondante sangue.
« Forse è questo che intendono con crisi di mezza età. Ma che poi come ne calcoli metà? È relativo.
Inizio a pensare che forse potrebbe esserci un altro modo di fare le cose. Non dico di voler cercare l’illuminazione stando seduto sotto un salice, o iniziare a mangiare solo erba per non ferire i sentimenti delle mucche; ma di tentare di fare qualcos’altro oltre all’ammazzare la gente. Già andare via da Hellhouse sarebbe un passo avanti, per lo meno non dovrei più sopportare quell’idiota di Victor e i suoi dannati capelli nel mio cibo. Partire verso il tramonto solo col mio scudo e Ronzinante, colpire con la mia lancia l'ingiustizia giorno e notte: ‘nsomma capito no? una vita così, un po’ più alla Clint Eastwood e un po’ meno alla Sweeney Todd».

Un moscone grasso e lucido lo circumnavigò un paio di volte, fece due giri su se stesso e finì nel bicchiere di birra dove iniziò a ronzare in preda al panico, come un grosso ciccione in un corso di acquagym. Un moscerino zampettò sul bordo stando a guardare la tragicomica fine del suo collega, mentre un nugolo variegato si divertiva a vorticare nell’aria in mezzo alla stanza. Una mosca si posò sopra la superficie umidiccia di un bulbo oculare e prese a saggiarne l’umor vitreo; non trovandolo di suo gradimento decise di sceglierne un altro un po’ più in là, poi un altro, e un altro ancora.

Se continui a parlare da solo la gente penserà che siamo pazzi.



Beh, lo siamo. E comunque qui non c’è nessuno.


Il magazzino era pieno di cadaveri. Ad una prima occhiata era difficile stabilire quanti fossero, troppe membra mutilate sparse per tutta la stanza; ma bastava contare i torsi per capire che là dentro erano state massacrate undici persone. Il sangue sul pavimento poteva quasi rispecchiare l’essenziale arredamento dello stanzone. In un angolo erano accatastati in una piccola montagnola disordinata centinaia di piccoli sacchetti pieni di polvere bianca, e lì accanto un borsone così gonfio di denaro da poter sfamare un paesino per sei mesi aspettava solo di essere preso.
Jeler abbassò nuovamente la maschera sul volto pieno di cicatrici.
Era ora di andare.

Edited by Dreyght - 11/11/2012, 13:35
 
Top
Dreyght
view post Posted on 6/11/2012, 23:14




Non esistono laboratori accoglienti: sono tutti freddi, asettici, disumani. Questo non fa eccezione, anche se ci vivo da vent’anni rimane comunque privo di qualsiasi calore umano. Non è un posto che posso chiamare casa, ma è l’unica casa che possiedo; è il mio rifugio, la mia proiezione, sono io stessa.

Ricordo quando da piccola mia madre mi portava a vedere gli animali allo zoo; lei mi comprava un gelato e ci fermavamo a guardare i gorilla perché sapeva che erano i miei preferiti. Solitamente stavano seduti nelle gabbie, pigramente adagiati l’uno contro l’altro nell’attesa che il guardiano portasse loro da mangiare. Ogni tanto uno si metteva ad osservarmi, ma non con uno sguardo incuriosito, no, potevo leggere l’accusa nei suoi occhi. In quei momenti dentro di me ero contenta che fosse dietro a sbarre d’acciaio, perché se ne avessero avuto l’occasione sapevo che ci avrebbe fatti a pezzi tutti quanti. Ma amavo quegli occhi neri, in essi percepivo una forza immensa e scrutavo nell’abisso del suo spirito .
Una volta sentii mia madre confessare ad una sua amica che odiava lo zoo, che gli animali non erano fatti per stare rinchiusi in spazi troppo angusti solo per dilettare la gente; lei non me lo aveva mai detto.
Non volli più andare allo zoo.
Iniziai a sentirmi in colpa per la mia gioia nel vedere creature molto più potenti di me ridotte all’impotenza, per l’euforia che provavo al pensiero di poterle in qualche modo controllare. Nascosi questo sentimento nel profondo del mio animo, vergognandomene come un peccato capitale, reprimendolo ogni volta che lo sentivo affacciarsi di nuovo.
Desideravo essere buona, e diventai una scienziata.
Completai con grande successo i miei studi e riempii d’orgoglio i miei genitori.
Poi ci fu la malattia di mio padre; i lunghi mesi di cure, gli impacchi, le erbe rare, le amorevoli cure di mia madre, le mie notti insonni in laboratorio per cercare una cura, tutto in vano. Morì quando avevo vent’anni.
Mia madre trovò un impiego come badante in una casa di gente arricchita, popolani rozzi che all’improvviso si vedevano autorizzati a trattare con disprezzo chiunque non avesse abbastanza soldi da permettersi una villa e una carrozza. La fecero lavorare così tanto che alla fine si ammalò e morì in poco tempo.
Fu in quei giorni di totale sconforto che arrivò la notizia della mia assunzione al Dipartimento Biogenetico Governativo; la cosa mi sorprese enormemente, soprattutto perché non avevo mai inviato alcun curriculum per quel posto. Non sapevo nemmeno esistesse.

Il dottor Abraham mi accolse come una figlia e mi prese sotto la sua ala per istruirmi nel nuovo lavoro: finalmente potevo dimostrare ciò che ero in grado di fare nel campo della ricerca.
Mi diedero l’incarico di studiare una nuova pianta medicinale e di ricavarne una formula efficace contro una malattia venerea che si stava diffondendo nella zona sud-orientale del Paese: fu come ritornare in vita. Passai sei mesi a studiare le proprietà curative dell’albero e sintetizzai una cura entro la fine dell’anno.
Dopo capii che si trattava solamente di un test per mettere alla prova le mie reali capacità, e l’avevo brillantemente superato.
Solo allora mi parlarono del Progetto X.
Dissero che nei loro laboratori erano stati fatti passi epocali nel campo della manipolazione cellulare sugli animali, e che era giunto il momento di passare alla sperimentazione umana. Dissero che i tempi erano maturi per portare la scienza su un nuovo livello mai visto prima, per infrangere le barriere che frenavano da sempre la scoperta sia per paura che per inettitudine. Dissero che avevano già operato una prima selezione di volontari e che sarebbe spettato a me scegliere l’individuo più adatto per l’esperimento: l’obbiettivo era intervenire sul suo DNA e fornirgli doti che i comuni mortali definirebbero disumane.
Un’arma. Dovevo trasformare un uomo in una perfetta macchina di morte.
Questo non lo dissero, o almeno non apertamente.



Continua

Edited by Dreyght - 11/11/2012, 13:35
 
Top
Dreyght
view post Posted on 11/11/2012, 12:17




L’infaticabile laboriosità della fantasia umana aveva ideato milioni di posti splendidi per gratificare il senso della vista, ma Hellhouse non era uno di questi. L’unico sentimento che quel luogo generava in chi ci capitava davanti per caso era l’inspiegabile desiderio di vomitare in un angolo.
Si trattava di un gigantesco casolare apparentemente abbandonato alla muffa e ai gatti, con un tetto mezzo sfondato e i muri del tutto scrostati, circondato da un praticello giallognolo che dopo ogni pioggia puzzava di lettiera. Un posto dove il brutto e il cattivo avevano sfrattato il buono da un pezzo.
«Eliminarlo, certo. Un piano geniale Victor, deve averti tenuto impegnato per mesi; peccato per quel piccolo particolare: non puoi ucciderlo». L’uomo guardò il colosso che gli stava davanti e si domandò se non avesse esagerato con il sarcasmo, non aveva voglia di un’altra rissa.
Victor sorrise, o almeno fece qualcosa di simile. È difficile distinguere un sorriso da un ghigno quando uno ha una fila di zanne al posto dei denti.
«Chissà…»
«E questo cosa vuol dire?»
«Che a differenza tua Lester, io ho fatto i compiti a casa».
«Stronzate»
.
Lester finì il suo bicchiere di porto e nell’alzarsi riprese l’arco poggiato sul tavolo. «Se fossi davvero in grado di ucciderlo non staresti qui seduto a parlare con me».
«Il momento arriverà presto»
ringhiò Victor «Hellhouse finalmente avrà un nuovo padrone».
«Patch è il padrone qui dentro»
puntualizzò Lester solo per infastidirlo, «anche se “guardiano del porcile” sarebbe più azzeccato».
«Patch è una segretaria».
L’arciere ridacchiò: «Un po’ di rispetto per il nostro datore di lavoro!».
«…Guardali, non ce n’è uno di loro che riesca a sopportarlo»
Victor diede un’occhiata tutto attorno a sé, osservando i volti dei criminali che lo circondavano; assassini, ladri, psicopatici, schizofrenici... e un border collie, ma bastardo.
«Non stiamo più parlando di Patch, suppongo».
«…Eppure tutti lo tollerano perché hanno paura di lui…»
Victor strinse il pugno, scavando quattro solchi nel tavolo con gli artigli «Ma io no».
Lester appoggiò un braccio allo schienale della sedia, sbuffando scocciato «Mi dici cosa hai in programma di fare o giochiamo al “vorrei ma non posso”? Se ti posso dare una mano a fargli male non hai che da chiederlo; ho ancora in sospeso con lui la faccenda degli scorpioni nel cassetto delle mutande. Pensi di usare la tua magicabula da fattucchiera?»
«Attento al limite Lester. Porta rispetto per i sacri rituali del voodoo, o te li farò sperimentare in prima persona»
ringhiò la bestia.
«TESORO, SONO A CASA!» gridò Jeler sbattendo il portone d’ingresso dietro di sé. Ne seguì un breve mormorio di disapprovazione, interrotto da qualche sporadico saluto di benvenuto piuttosto gelido.
«Wilma! Dov'è la mia bistecca di brontosauro?»
Un nanerottolo sulla sessantina mezzo pelato e con due lunghi baffi bianchi uscì dall’ufficio direzione e gli trotterellò incontro.
«Che novità?» chiese.
Jeler si lasciò cadere di peso sulla sedia più vicina, incrociando le braccia dietro la nuca: «Ci sono dei lavori in corso tra vicolo corto e vicolo stretto, e non so se lo sai ma da Max stanno facendo di nuovo la promozione sui panini al formaggio».
Patch diede un calcio alla sedia su cui il mercenario si stava dondolando, rischiando di farlo cadere a terra.
«Ma ti pare? Potevo farmi male!» bofonchiò «E va bene: missione compiuta, Capitano. Contento?»
«Bravo ragazzo, poi quando te la senti passa nel mio ufficio a depositare la mia quota. Tipo adesso.»

Jeler accennò al sacco accanto alla porta e disse «Quelli sono più che sufficienti per te?».
«Vedremo»
rispose Patch trascinando volenterosamente la borsa piena di denaro verso il suo ufficio, abbassando la veneziana.
«Mi venga un embolo se quelli là in fondo che cercano di confondersi con la tappezzeria non sono Lester e Victor!» gridò il mercenario.
«Ci auguriamo tutti che ti venga ugualmente» disse Lester. I due abbandonarono il loro tavolo per avvicinarsi all’uscita.
«Ve ne andate? È già l’ora del bisognino Victor? Non ti consiglio di andare nel prato, che con tutta quella peluria minimo raccatti una colonia di pulci».
Il colosso lo scrutò con disprezzo: «Diventi ogni giorno più stupido».
Jeler fece spallucce.
«Goditi i parassiti allora».
«Ragazze, perché non risolvete tutto alla vecchia maniera con qualche schiaffo e una tirata di capelli?»
suggerì una calda voce femminile, seguita dalla figura di una donna dai capelli neri acconciati in lunghi rasta. Dall’abbigliamento si sarebbe potuta dire una prostituta a basso prezzo, ma dal suo sguardo chiunque avrebbe capito che allontanarsi con lei in un vicolo buio significava finire squartati sul marciapiede. Metà del suo volto era truccato di bianco, il che faceva risaltare gli occhi verdi in un viso tanto perfetto quanto crudele.
«Non ti ci mettere pure tu Ivy» sbuffò Lester «Non ho voglia di sentire le lamentele di Patch per l’ennesima volta».
«”Niente scontri a Hellhouse”»
recitò Ivy con aria annoiata «Ma sono giorni che nessuno si ammazza qui dentro!».
Victor non li degnò di una seconda occhiata e se ne andò sbattendo la porta, mentre l’arciere si rivolse nuovamente alla donna: «A proposito, chi ha detto al nuovo arrivato che per entrare nella compagnia c’era bisogno di superare due fantomatiche prove?» chiese.
Jeler e Ivy si scambiarono un’occhiata complice, e Lester scoppiò a ridere.
«Siete due sadici bastardi, per poco non ci rimane secco contro Grim».
«L’idea era quella»
disse Ivy sbadigliando.
«Ma Patch ha insistito perché lo lasciassimo in pace, che gli poteva servire un nuovo ladro, che era ancora giovane, e un sacco di altre storie» concluse Jeler «Mi hanno detto che vive qui ora: beh, se è sopravvissuto per un mese alla puzza e al cibo di Hellhouse, potrebbe davvero valere i vestiti che indossa. Com’è che si chiama? Igor?».
«Penso Tailer»
disse Lester.
«Chissenefrega» tagliò corto Ivy.
Nel mentre, due tavoli indietro un ragazzetto dall’aria svelta e intelligente ascoltava la conversazione; ma nessuno ci fece caso.
Lester sistemò l’arco a tracolla e prese il mantello nero appeso all’attaccapanni, alzando il cappuccio. «Ragazzi, vi auguro buona serata. Quelle informazioni per Patch non si ruberanno da sole e io detesto le scadenze non rispettate. Ciao ciao!».
Quando la porta d’ingresso si chiuse dietro all’arciere, Ivy si sedette in braccio a Jeler e gli si adagiò lascivamente contro il petto.
Jeler la guardò perplesso: «Non che mi lamenti, ma hai iniziato una cura ormonale o all’improvviso hai capito quanto terribilmente affascinante io sia?».
«Nessuna delle due cose»
sogghignò la donna «Ma vorrei sapere dalla fonte primaria se è vero ciò che si dice in giro di te, tesoro…»
«Se è per quella storia del procione e della crema di mango, ti giuro che ha iniziato lui».
«Dicono che tu ti stia rammollendo»
gli sussurrò nell’orecchio.
Jeler aggrottò la fronte sotto l’attillata maschera rossa e nera «E chi lo dice? Victor? Scommetto che dice in giro anche che ce l’ha più grosso».
«No, non è stato Victor…»
«Anche perché non è vero.»

Ivy gli tirò uno schiaffo. «Stammi ad ascoltare Jeler, o ti pianto un pugnale in un occhio»
«Hai la mia più completa attenzione baby, ma se lo fai di nuovo sarò io a prendere a calci quel bel sederino che ti ritrovi».

La donna sorrise e assunse un tono più conciliatorio «Le voci girano qui dentro, lo sai meglio di me visto che la tua è quella che gira più spesso. E ad Hellhouse la reputazione è tutto quando sei uno dei migliori.»
«Come “uno dei migliori”?! Io sono il migliore e chiunque dica il contrario si ritroverà la testa a stretto contatto con il suo intestino.»

«Iniziano ad avere più paura di Victor che di te, a quanto pare c’è qualcosa nell’aria… e solo tu non riesci a capirlo. Sei strano Jeler, più strano del solito ed in una maniera del tutto diversa».
In realtà Jeler capiva benissimo, ma semplicemente se ne fregava: da quando aveva incontrato Neena erano cambiate molte cose, c’erano molte più incognite che certezze in una testa già messa malissimo di suo.
«Non sarai forse innamorato?» domandò con crudele malizia Ivy «Sarebbe così patetico se gettassi tutta la tua carriera al vento per star dietro ad una stronzetta».
Neena era bellissima: capelli ramati, occhi azzurri, un fisico da modella e una certa predisposizione alla magia psionica; ed era una brava ragazza, una di quelle che ad esempio non escono alla sera quando sono sotto esami. Lei sapeva chi fosse Jeler, ma non aveva avuto paura. Sapeva cosa fosse Jeler, e non aveva vomitato guardandolo. Una sola molecola di quella donna era migliore di tutta la carne marcia riunita ad Hellhouse.
«Ivy, l’unica stronzetta della mia vita sei tu, te lo posso giurare» rispose Jeler come nulla fosse «A cosa serve una moglie che ti cucina il pranzo quando hai una serial killer psicopatica che si preoccupa per il tuo cattivo nome? Sono l’uomo più fortunato del mondo!»
Ivy ridacchiò e gli morse un lobo con sensuale ferocia: «Mi assicuro solo che tu non combatta dalla parte sbagliata».
«Io combatto per chi mi paga tesoro, il compito di distinguere il bene e il male lo lascio ai giornalisti»
esclamò il mercenario.
«Dimostramelo» sussurrò malignamente la donna.

Edited by Dreyght - 11/11/2012, 13:36
 
Top
Dreyght
view post Posted on 11/11/2012, 13:34




In settembre iniziai i colloqui con i volontari: quattrocentoventi persone da valutare in pochissimo tempo e con la massima precisione possibile, il fallimento non era contemplato. Scrissi e distribuii dei questionari psicologici per una prima, rapida selezione; non mi servivano persone troppo stupide o troppo povere, né troppo ricche o troppo ambiziose. Il mio uomo doveva avere due requisiti ben precisi: disperazione e decisione. Li trovai entrambi in una mattina di inizio novembre, una rara giornata di sole autunnale.
Il suo report era eccellente, ottima forma fisica, prestante e di bell’aspetto. Risultava essere un ex soldato, ritiratosi da un paio d’anni per intraprendere una più lucrosa carriera di mercenario, esperto in ogni genere di combattimento, con o senza armi. E disperato, molto, molto disperato.
Due mesi prima gli era stata diagnosticata una neoplasia cerebrale, un raro caso di craniofaringioma assolutamente inoperabile che l’avrebbe portato alla morte entro poco tempo. Non avevo bisogno di cercare ancora, lo scelsi senza esitazione nonostante il suo pessimo senso dell’umorismo sempre fuori luogo.
Avevo previsto quindici sedute da quattro ore l’una, ma ci sarebbe voluto troppo tempo e non ero certa che il metabolismo del paziente fosse in grado di assimilare il siero prima di soccombere alla malattia: se fosse morto a metà esperimento avrei gettato via decine di milioni e due anni di ricerca. Optai per dividere il trattamento in due parti, ciascuna di diciotto ore; avrei voluto avvertire il soggetto che questo comportava una dose di dolore esponenzialmente più elevata, ma non ne ebbi il coraggio. Non potevo rischiare che si ritirasse all’ultimo momento, quando ormai tutto era già stato predisposto: gli presentai le pratiche per il consenso e lui le firmò senza nemmeno leggere, esattamente come avevo previsto.
La prima sessione andò splendidamente, nonostante le urla. Non avevo nemmeno bisogno di costringermi ad ignorarle, ero troppo concentrata sulle strumentazioni per prestare attenzione alla sua sofferenza; dopotutto era stata una sua scelta, e io lo stavo salvando dalla morte. Era per il suo bene.
Il mio delirio di onnipotenza crollò durante il secondo ciclo dell’esperimento: tutto quello che avevo previsto potesse andare male, andò peggio. I valori del suo metabolismo schizzarono come numeri impazziti trasformandosi in cifre senza senso, il suo corpo stava assimilando il siero in maniera completamente sbagliata.
Quando lo tirammo fuori dalla camera di sospensione amniotica era privo di coscienza, ma ancora vivo. Ricordo che il primo sentimento che provai nel vederlo fu di rabbia: avevo riposto così tanta fiducia nel suo codice genetico che gli attribuivo tutta la colpa del mio fallimento. Lo feci trascinare in una piccola cella completamente sterilizzata accanto al mio laboratorio, ed iniziai a riflettere su come giustificare quel clamoroso buco nell’acqua.
Erano le due del mattino quando udii un urlo giungere dalla sua stanza, seguito da una serie di colpi sordi.
Corsi alla porta e mi affacciai all’oblò di vetro per controllare cosa stesse succedendo là dentro. E quando lo vidi, finalmente, capii.
La mutazione era avvenuta con successo, ma c’era un effetto collaterale. Le cellule tumorali erano state coinvolte nel processo di mutazione, propagandosi in tutto il corpo: il siero aveva innescato un continuo processo di annichilimento, e le cellule del suo corpo continuavano a distruggersi e a rigenerarsi in un ciclo perenne. Tutto il corpo era completamente sfigurato da piaghe e cicatrici, compreso il suo volto.
Era orribile.
Avevo trasformato un uomo in un abominio.

Gli somministrai quasi tutti i sedativi che avevo a portata di mano, ma non facevano effetto che poche ore. Gridava, imprecava, chiedeva aiuto, implorava di far cessare il dolore: mi pregò di ucciderlo e al mio rifiuto prese un bisturi tagliandosi la gola di netto, con la stessa disperata aspettativa di un uomo che afferra un bicchiere d’acqua dopo giorni di arsura. Dopo meno di un’ora, di quella ferita restava solo un’altra orribile cicatrice; il fattore di guarigione funzionava dannatamente bene, ogni danno subito dal suo corpo veniva riparato con un’efficienza sovrumana, e ciò significava che il mio lavoro era corretto.
Nessuno ai piani alti mi biasimò per il mio errore, dissero di essere rimasti molto soddisfatti dal risultato finale e di non perdermi d’animo: la prossima volta sarebbe andata meglio. Volevano che iniziassi un altro ciclo di esperimenti e una settimana dopo presero in custodia il mio soggetto. Fui terribilmente sollevata quando vennero a prelevarlo perché non sarei più stata costretta a guardarlo, rischiando di sentirmi in colpa; il mio lavoro era troppo importante per abbandonarsi al sentimentalismo, mi serviva concentrazione e non mi era possibile studiare con qualcuno che continuava a lamentarsi pietosamente giorno e notte.
A volte sentivo provenire diverse voci da quella stanza, come se ci fosse qualcun altro insieme a lui; immaginai che il cancro gli avesse danneggiato irreparabilmente il sistema nervoso rendendolo schizofrenico, o forse il dolore era semplicemente troppo per essere sostenuto rimanendo sani di mente.

Andai a trovarlo un mese dopo nella nuova struttura, e rimasi allibita nello scoprire il numero di persone rinchiuse là dentro. L’avevano messo in una vera e propria cella con sbarre d’acciaio come un criminale; misura cautelare, mi dissero. Intrattenni con lui una conversazione breve, surreale e per nulla piacevole. Parlò lui per quasi tutto il tempo dimostrando una spropositata mania di protagonismo, farcendo i suoi discorsi con frasi illogiche o battute di pessimo gusto.
Quella notte non riuscii a dormire, finalmente.
Mi ricordai dei gorilla, di mia madre, di quella radice di sadismo che per tanti anni avevo cercato di estirpare e che invece aveva attecchito, insinuandosi dentro di me come un parassita. Non avrei mai dovuto accettare quel lavoro, eppure l’avevo fatto. Avevo udito le urla di un uomo sottoposto a torture inumane, e le avevo ignorate. Avevo guardato quel corpo da me martoriato provando orrore. Avevo guardato la mia vittima negli occhi nutrendo disgusto.
Ero un mostro.
E mi piaceva.

Due settimane dopo mi comunicarono che avevano trovato il modo di impiegare attivamente il mio soggetto nonostante la sua imperfezione; chiesi se dovevo preoccuparmi per la mia incolumità, ma mi assicurarono che la sua memoria era rimasta danneggiata durante l’esperimento, forse a causa della mutazione o forse a causa della sofferenza provata. Mi tranquillizzai, non si ricordava di me, nessuno era sulle mie tracce, avrei potuto lavorare alle mie nuove sperimentazioni senza alcuna preoccupazione.
Questo successe dieci anni fa.

 
Top
Dreyght
view post Posted on 13/11/2012, 01:21




E poi successero un sacco di cose, tipo morti, tragedie, scene divertenti, esplosioni, pathos e dramma, ma a noi questo non interessa.
Quello che ci interessa è che un giorno Jeler doveva andare a comprare il pane in città, ma invece di prendere l'autobus 34 prese il 27, che era fatato, e si ritrovò davanti ai cancelli di Midgaard. Lì un folletto gli chiese "Ehy, vuoi diventare un mercenario?" e lui rispose "certo!".
E fu così che per magia Jeler arrivò in Silmarillia.

Fin.
 
Top
lucazeo
view post Posted on 13/11/2012, 11:16




CITAZIONE (Dreyght @ 13/11/2012, 01:21) 
E poi successero un sacco di cose, tipo morti, tragedie, scene divertenti, esplosioni, pathos e dramma, ma a noi questo non interessa.
Quello che ci interessa è che un giorno Jeler doveva andare a comprare il pane in città, ma invece di prendere l'autobus 34 prese il 27, che era fatato, e si ritrovò davanti ai cancelli di Midgaard. Lì un folletto gli chiese "Ehy, vuoi diventare un mercenario?" e lui rispose "certo!".
E fu così che per magia Jeler arrivò in Silmarillia.

Fin.

Stufata di scrivere? :-P
 
Top
Varkas
view post Posted on 13/11/2012, 19:54




Il mio innato sesto senso mi induce a pensare sia per altri motivi.
Mi spiace, leggo sempre volentieri i racconti
Varkas
 
Top
6 replies since 6/11/2012, 22:41   116 views
  Share