Artan Eltanin, Il Cavaliere del Drago

« Older   Newer »
  Share  
Dreyght
view post Posted on 3/3/2014, 20:33




Artan Eltanin, Stella dello Zenit



czek

Passi sulla ghiaia.

Anseris abbassò con gesto esperto il liccio del telaio, rimanendo in ascolto. Conosceva a memoria i rumori di casa sua, il borbottio della zuppa sul fuoco, il respiro lento della bimba addormentata, i muggiti del bestiame; conosceva bene anche il rumore dei passi di suo marito, e non erano di certo leggeri come quelli. Chiunque stesse camminando nel cortile stava cercando di non fare rumore, fallendo miseramente.
La giovane fissò il telaio in modo da non perdere il lavoro della mattinata, si alzò con calma per non svegliare la piccola, prese la spada e lo scudo dietro il paravento della camera e si avvicinò alla porta d’ingresso. Con la coda dell’occhio vide una figura scura scivolare sotto la finestra e immaginò che ve ne fosse un’altra anche sull’altro lato della casa: tre avversari rappresentavano una bella sfida, ma non impossibile. Di norma non avrebbe avuto problemi ad affrontarne anche quattro contemporaneamente, in battaglia sono cose che capitano spesso; lì nemici non si mettono in fila per farsi ammazzare al loro turno. Tuttavia il parto recente, le notti insonni e la mancanza di allenamento l’avevano infiacchita, se n’era resa conto immediatamente quando aveva sollevato lo scudo; in più c’era da proteggere la bambina, non poteva permettere che le facessero del male mentre tenevano lei impegnata in combattimento.
Considerò tutti gli elementi ed elaborò una semplice strategia: nessuno doveva oltrepassare quella soglia.
Si gettò sulla maniglia con tutto il suo peso e la porta andò violentemente a sbattere in faccia all’uomo appostato sul vialetto. Il crack sonoro del suo setto nasale preannunciò una cascata di bestemmie e un fendente tirato a casaccio, che Anseris deviò senza problemi; con la sicurezza e la precisione di un guerriero esperto tirò un calcio direttamente nello stomaco del nemico, gli spezzò la mascella con un pugno ben assestato e lo finì affondandogli la daga nel petto senza alcuna esitazione. Uno era sistemato, Anseris sperò che anche gli altri due fossero altrettanto incapaci.
Arretrò di un passo portando lo scudo davanti a sé, in modo da proteggersi e bloccare completamente l’ingresso; sarebbe stata molto più tranquilla con in pugno la sua lancia e non la spada corta, ma il manico si era spezzato qualche mese prima e non l’aveva più riparato. Si morse un labbro constatando la sua negligenza, nei suoi giorni da soldato avrebbe punito severamente chiunque non si fosse preso cura delle proprie armi; lei stessa passava ore a lucidarle e ripararle, non poteva permettersi che si rompessero durante un assalto o una razzia. Si accorse solo in quel momento di quanto gli agi e la maternità l’avessero rammollita, questa era una buona occasione per fare un po’ di esercizio.
«Allora, cari ospiti» urlò «volete entrare per un tè?»
Una freccia le sfiorò la testa, conficcandosi nello stipite a pochi centimetri dal suo orecchio.
«Dio, ma siete pessimi !» disse, facendo però un ulteriore passo indietro.
In quel momento la finestra andò in frantumi, e un uomo si catapultò dentro il soggiorno con in pugno due asce. Anseris fu costretta ad abbandonare la postazione per affrontarlo, intercettando appena in tempo un colpo diretto al suo collo; dallo scudo si era staccata una scheggia di legno, ma aveva assorbito l’urto abbastanza bene: il tizio colpiva forte, questo Anseris doveva ammetterlo, ma non sembrava più furbo o veloce del suo compare morto. La donna incalzò con fendenti veloci e precisi, obbligando l’avversario ad indietreggiare nel tentativo di parare con entrambe le asce. Lo scontro non durò più di un minuto, ben presto le mani dell’aggressore iniziarono a grondare sangue e non fu più in grado di impugnare le sue armi: Anseris lo finì con un colpo alla gola lasciandolo affogare nel proprio sangue. Stava per voltarsi e tornare in posizione, quando un’altra freccia le si conficcò in un polpaccio, passandolo da parte a parte. Ecco, ci doveva pur essere un motivo se la prima regola di un guerriero era “mai abbandonare la postazione”.
La sua mente esperta lavorò in fretta: appoggiò il piede a terra e una fitta di dolore si propagò fino alla spina dorsale, ma a parte quello il tendine era a posto, non c’era alcun motivo di preoccuparsi, l’adrenalina la teneva in piedi e ben presto le avrebbe fatto dimenticare di essere ferita: e poi, si stava divertendo.
Riprese il suo posto all’ingresso ma si posizionò in posizione più defilata, in modo da controllare anche la finestra; la luce stava svanendo in fretta, il sole era tramontato da un pezzo e le cose per l’arciere si mettevano male.
«Dovremmo farla finita prima che torni mio marito, non vorrai che ci scopra» disse.
Il rumore di passi veloci sulla ghiaia le svelarono che il nemico saggiamente stava battendo in ritirata: senza pensarci due volte lasciò cadere lo scudo e si avviò a grandi passi verso la finestra distrutta, chinandosi per afferrare una delle asce rimaste a terra. Balzò oltre il bordo della finestra ignorando i vetri rotti e, senza fermarsi troppo a prendere la mira, lanciò la scure verso la sagoma nera che stava correndo disperatamente giù dalla collina. Il manico dell’arma si schiantò contro la schiena dell’uomo, che perse l’equilibrio e cadde con la faccia sul pietrisco, per rialzarsi subito dopo e riprendere a scapicollarsi lungo il sentiero.
«I miei ossequi a Lord Ogral!» urlò Anseris, prima di rientrare in casa ad allattare la figlia urlante.

Quando Artan rincasò il cielo stava già albeggiando. Fece un pallido tentativo di muoversi silenziosamente, chinandosi per non sbattere la sommità dell’elmo contro lo stipite della porta, ma lo sferragliare dell’armatura risuonava nel silenzio della campagna come la marcia di un’orda di orchi, e così la neonata si svegliò.
«Sei un dannatissimo stronzo» disse Anseris, prendendola dalla culla.
Artan si limitò a togliersi il mantello e gettare l’elmo sulla poltrona, passandosi una mano tra i corti capelli neri rimasti schiacciati sotto l’infula.
«Perché non sei rimasto a dormire alla torre, invece di tornare a quest’ora?»
«Per vedere la mia dolcissima moglie e la nostra adorabile figlioletta»
rispose stancamente l’uomo, versandosi un bicchiere di vino speziato. Era così spossato che si sarebbe volentieri messo a dormire con la corazza, ma probabilmente avrebbe sfondato il letto. Iniziò a spogliarsi con fatica, desiderando solo che la bambina smettesse di piangere e lo lasciasse riposare in pace, ma aveva pochissime speranze che questo accadesse.
«Fottiti, Artan» ringhiò la donna, porgendo il seno alla figlia.
Il cavaliere bevve d’un fiato il vino nella coppa e se ne versò velocemente dell’altro, finendolo con altrettanta rapidità. Tra i turni di guardia, l’allenamento dei cadetti e l’assemblea straordinaria alla Torre del drago, non chiudeva occhio da quasi due giorni, e quella poltrona era così comoda che quasi, quasi…
La macchia di sangue sul pavimento iniziava a perdere i contorni, mentre tutto diventava opaco e il sonno prendeva possesso delle sue membra.
Si riscosse con un sobbalzo.
«Quello è sangue! Cosa è successo qui?»
Poi notò la finestra scardinata rimessa a posto alla meno peggio.
«Anseris?»
La donna gli lanciò uno sguardo di rimprovero mentre sistemava la bambina nella culla.
«Sono venuti tre uomini di Ogral a farmi visita» disse «Li ho uccisi. O meglio, due li ho uccisi, uno è scappato».
Il sonno scomparve dalla mente di Artan, i suoi lineamenti si fecero duri.
«Vienimi a dire che dovevo solamente ferirli, o metterli in fuga, che ti spacco la faccia» lo minacciò lei.
«No, hai fatto bene, ma sono desolato che tu abbia dovuto affrontarli da sola»
rispose Artan.
«Desolato? Tua moglie e tua figlia rischiano la vita e tu sei “desolato”?».
Anseris fece per tiragli uno schiaffo, ma Artan le afferrò la mano prima che potesse colpirlo.
«Smettila» le disse «È ovvio che la questione mi preoccupi seriamente, ma sappiamo entrambi che sei una guerriera abile quanto me e che gli uomini di Ogral non possono sperare nemmeno di sfiorarti».
Vedendola silenziosa le strinse delicatamente la mano in un gesto affettuoso, ma aggrottò la fronte.
«È bollente» disse.
Anseris si ritrasse, alzandosi per controllare la bambina.
«Sto bene» tagliò corto, ma quando Artan fece per trarla a sé non poté evitare di lasciarsi sfuggire un gemito.
«Ti hanno ferita?»
«Mi sono già medicata»

Per la prima volta l’uomo parve preoccupato. Dovette insistere parecchio, ma alla fine Anseris gli mostrò il polpaccio squarciato: estrarre la freccia non era stato facile né indolore, ma era riuscita a limitare i danni, o almeno ci sperava.
«Dovremmo attaccarli, massacrarli tutti. Io e te insieme possiamo farcela» continuava a ripetere febbrilmente Anseris, la fronte imperlata di sudore. Artan l’aveva messa a letto e le si era seduto di fianco.
«A meno che quei cadaveri nella stalla non abbiano un marchio che li identifichi come proprietà di Grent Ogral, non abbiamo alcuna prova di un suo reale coinvolgimento. Non possiamo sterminare lui e i suoi scagnozzi basandoci su una nostra supposizione, per quanto fondata essa sia, o finiremmo entrambi in carcere per omicidio».
«Nessuno lo verrebbe mai a sapere, possiamo attaccarli di notte quando sono ubriachi e vulnerabili; nessuno di loro è in grado di tenerci testa se siamo insieme, nemmeno Ogral».
«Ogral si è fatto più furbo. Sta raccogliendo attorno a sé parecchia gente e circolano voci strane sul suo conto, c’è chi pensa si stia interessando alle arti oscure. Ma qualunque siano i suoi crimini, dovrà risponderne al Dovah. Noi non siamo assassini»
.
Anseris si mise a sedere puntellandosi sul materasso, e strinse il braccio di Artan in una morsa d’acciaio.
«Il tuo senso di giustizia non si addice ai bastardi di Ogral, meritano solo di essere sterminati, come i cani che sono. Liberare il mondo dalla loro presenza, ecco cos’è la vera giustizia!».
«La legge è stata creata apposta per punire i criminali, Anseris. Io ho giurato fedeltà ad un codice perché credo nella sua efficacia, non per fregiarmi di un titolo vuoto».
«Sei uno stupido»
sospirò la donna, appoggiando nuovamente la testa sul cuscino.

---

Lord Ergard si stava godendo la sua colazione di salsiccia di maiale, pane tostato e aringhe, il tutto accompagnato da un vino robusto e dalla lettura di un buon libro. Si sentì bussare alla porta, e dopo un attimo la testa del maggiordomo fece capolino oltre la soglia.
«Signore, sir Artan vorrebbe conferire con voi urgentemente» disse.
«Fallo entrare, che stai aspettando» rispose sbrigativo Lord Ergard, chiudendo il libro e gettandolo sulla poltrona.
Il maggiordomo aprì la porta e fece passare Artan, che si inchinò tenendo l’elmo sottobraccio.
«Benvenuto, accomodatevi. Avete già mangiato o mi fate compagnia con la colazione?»
Artan rispose alla vigorosa stretta di mano di Ergard, ma scosse la testa.
«No, ma come se avessi accettato, davvero. Vi ruberò solo qualche minuto, non sono qui in veste ufficiale».
Ergard versò del vino in un secondo calice e lo porse ad Artan, prima di sprofondare nuovamente nella sua poltrona.
«Allora potete assaggiare questo Dorwinion della mia riserva speciale, non c’è modo migliore per iniziare bene la giornata… o per finirla in gloria, dipende dalle esigenze. Ma sto perdendo tempo e voi vi spazientite in fretta, lo so. Ditemi in cosa posso esservi utile, così io torno alle mie aringhe e voi al vostro dovere».
Artan appoggiò il bicchiere su un tavolino lì a fianco con gesto naturale, dissimulando bene di non aver nemmeno bagnato le labbra nel vino.
«Recentemente avete avuto contatti con vostro fratello Grent?» chiese senza inutili giri di parole. Ergard non amava quel discorso così come non amava Grent Ogral; Artan lo sapeva, ma era uno dei pochi a poter sperare di ottenere una risposta e non un pugno nei denti.
«Amico mio, voi volete farmi venire il mal di stomaco in una giornata che si prospettava tranquilla. Non sento Grent da anni, né mi interessa farlo. Che quel bastardo traditore della patria e della famiglia possa marcire in esilio per il resto dei suoi miserabili giorni!».
Per quanto Lord Ergard avesse tentato inizialmente di mantenere una calma dignitosa, concluse la frase sbattendo violentemente il calice di cristallo sulla scrivania, con il viso rosso e un tono di voce più alto del necessario. Artan lo fissò impassibile.
«Lord Ergard, capisco che per voi sia difficile affrontare l’argomento, ma pensateci bene, vi sono giunte notizie o voci su vostro fratello, che possano far pensare ad un suo coinvolgimento in nuovi complotti?» incalzò.
«Ha preso dimora in una vecchia cascina nei dintorni di Midgaard, non chiedetemi dove abbia trovato i soldi per comprarla, né chi gliel’abbia venduta, da quello che mi hanno raccontato sembra quasi sorta dal nulla. Ovviamente attorno a lui si è creata la solita combriccola di perdigiorno e tagliagole, è sempre stato bravo a circondarsi di bassa manovalanza che si occupi dei lavori sporchi al posto suo, ma ancora una volta non ho idea di come riesca a mantenerli. Deve avere per forza qualche traffico segreto, e ha l’accortezza di mantenerlo tale».
Lord Ergard si sporse dalla poltrona e afferrò una fetta di pane fritto, staccandone metà con un morso e bevendoci dietro un lungo sorso di vino. La rabbia gli faceva venire fame.
«Quindi lo state spiando?» domandò Artan, arrivando al punto che più gli premeva. L’altro annuì.
«Ogni tanto mando qualcuno a dare un’occhiata nei dintorni, ma non ho mai scoperto nulla di compromettente. So che la sua compagnia non è delle più raccomandabili, ma niente di più. Se commettono crimini, sono molto bravi anche a non farsi scoprire».
«Le vostre spie lasciano piuttosto a desiderare. L’altro giorno gli uomini di vostro fratello hanno attaccato mia moglie Anseris e mia figlia, in casa nostra» disse lapidario Artan. In realtà non era totalmente sicuro di quello che stava affermando, ma anche lui aveva le sue fonti, e tutte sostenevano che quei tre banditi gravitavano attorno all’orbita malfamata di Grent Ogral.
«Come dicevo, sono abbastanza furbi da agire senza farlo sapere in giro. A questo punto ho il dubbio che abbiano scoperto la copertura dei miei uomini, o che li abbiano semplicemente corrotti. Non avrei mai immaginato che quei vermi si spingessero a tanto. E come sta Lady Anseris? Avete idee sul motivo che ha spinto Grent ad attaccare la vostra famiglia?».
«Ho buoni motivi per credere che sia spinto da un interesse verso mia moglie. Anni fa lui ed Anseris hanno avuto dei contatti di
lavoro, se così vogliamo chiamarlo, poco dopo che lei era sbarcata a Skaldeyarr insieme al suo gruppo di predoni. Da quel momento Grent non ha mai celato le sue intenzioni nei suoi confronti. Dopo essere decaduto e aver subito la condanna all’esilio pensavo che avrebbe desistito, ma a quanto pare ho sottovalutato la sua testardaggine»
.
«E voi eravate con me al concilio che decretò il suo bando, è probabile che ormai sia una questione d’orgoglio per lui» aggiunse Ergard.
Artan annuì con aria greve, tornando per un attimo al giorno in cui decisero la punizione per i crimini di Grent Ogral: era rimasto impassibile mentre di fronte a lui Diana leggeva la sentenza di morte, come se la cosa non lo riguardasse. Non fece una piega nemmeno quando apprese che gli era stato concesso di sfuggire al boia in virtù della sua casata, se solo non si fosse più fatto vivo nei territori di Ofcol. Questo rappresentava il massimo dell’umiliazione per un uomo come lui, abituato al lusso sfrenato e al gusto di essere obbedito dai suoi sottoposti, che si vedeva gettato nel fango e nell’ignominia per sempre, costretto a convivere con la consapevolezza di dovere la propria vita allo stesso Drago contro cui aveva complottato.
Ma era solo, piegato, spezzato… com’era riuscito a mettere di nuovo in piedi un’organizzazione criminale, dove aveva trovato il denaro necessario? Non si poteva escludere che dietro Grent vi fosse qualcun altro, un finanziatore, qualcuno di abbastanza potente da rischiare una condanna a morte per aver aiutato un esiliato. Se non fosse stato assolutamente certo del suo odio per il fratello, Artan avrebbe potuto sospettare di Lord Ergard stesso.
«Spero non vi offendiate, ma anch’io ho le mie fonti, per quanto meno dirette delle vostre. Alcune di loro mi hanno riferito di strani movimenti nella nuova magione di vostro fratello, parlano di riti singolari, mai visti prima d’ora, che coinvolgono anche il santuario nelle Pianure del Nord».
«Pensate che Grent si sia messo in combutta con dei demoni?»
chiese pensosamente Ergard.
«Non lo escludo» rispose Artan «Si spiegherebbe l’improvvisa abbondanza di denaro, la segretezza, e la necessità di avere una base non troppo distante dalle pianure».
«Dovete prendere un drappello di uomini e dare alle fiamme quel vespaio prima che cresca troppo, Artan, io detesto mio fratello ma non per questo lo sottovaluto, è scaltro e subdolo al punto tale che l’ipotesi che abbia venduto la sua anima ad un demone non mi sorprende affatto. Verrò anch’io con voi, se me lo concederete» esclamò Ergard, preso dal fervore del discorso.
«Nulla mi darebbe più soddisfazione dell’entrare in casa sua e sterminarlo insieme alla sua banda, ma non mi è possibile, è fuori dalla giurisdizione di Ofcol e noi non possiamo intervenire senza suscitare un incidente diplomatico con Midgaard. Sono sicuro che abbia spie anche nella corte della reggente Reginleif, se dovessimo chiederle il permesso di varcare i confini del Midengaard lui lo verrebbe a sapere subito, lasciandoci con un pugno di mosche».
Ergard sbatté il pugno sul bracciale della poltrona in un moto di frustrazione, gli occhi che mandavano lampi d’odio.
«Maledizione! Siano dannati i miei genitori per aver messo al mondo un abominio del genere!» imprecò, suscitando il disappunto di Artan.
«Non offendete la memoria dei morti, Ergard, specialmente di due cittadini onesti come Lord e Lady Ogral. Troveremo un modo per contrastare vostro fratello, vi do la mia parola d’onore, ma nel frattempo cercate di fare attenzione, potreste essere in grave pericolo. Cambiate le vostre abitudini, licenziate i servi meno affidabili, circondatevi di poche persone leali, prendete ogni precauzione contro un eventuale attentato di Grent».
«Farò il possibile»
replicò fieramente Ergard, alzandosi dalla poltrona e accompagnando Artan alla porta. «Non ho intenzione di stravolgere la mia vita a causa di quel terrorista, né di farmi condizionare dalla paura di trovare la morte ad attendermi in ogni angolo della mia casa, e della mia città!»
«Vi terrò informato»
disse Artan, stringendogli la mano. Poi accennò un inchino e tornò da sua moglie, che aveva lasciato a letto con la febbre alta.

---

Gli scudieri depositarono la barella nel cerchio di luce proiettato dal lucernario ed uscirono rapidamente dalla camera, lasciando Artan e l’anziano drago da soli.
Il cavaliere si inginocchiò, chinando il capo in segno di rispetto.
«Artan Eltanin, Stella dello Zenit. Già so cosa mi stai per chiedere» lo anticipò il drago.
«Signore, non sarei qui se non fosse questione di vita o di morte» disse l’uomo.
«So anche questo».
Gli sembrò che il drago sorridesse, in qualche modo.
«Tuo padre mi fece la stessa richiesta trentadue anni fa, mentre reggeva tra le braccia un neonato moribondo».
«Da quel giorno la mia vita appartiene a voi, mio Signore, per quello che essa può valere»
rispose Artan, rimanendo con il volto rivolto al pavimento «Perdonate la debolezza di un uomo che osa chiedervi un’altra grazia, quando non potrà mai ripagare nemmeno la prima».
«Non ti prosternare, Cavaliere. Alzati ora, e assisti al prodigio di un’antica gloria»
.
Il drago si diresse a passi lenti verso la sfera dorata al centro della stanza; malgrado l’età millenaria, il suo incedere era solenne ed il suo portamento fiero, le scaglie lucenti che riflettevano i colori delle pietre preziose incastonate nel soffitto. La perla iniziò a fluttuare sulla sua zampa, brillò intensamente per qualche istante e tornò fluttuando nella teca in cui era custodita: il drago allora si voltò verso Anseris, vide il sangue nero sgorgare dalla ferita infetta e avvicinò un artiglio fin quasi a sfiorarla; il potere della sfera abbandonò la mano e si diffuse nel corpo di Anseris, che riaprì gli occhi un istante prima di crollare in un sonno tranquillo.
La portantina fu trasportata nel tempio della torre, dove Anseris avrebbe potuto riposare per tutto il tempo necessario alla sua guarigione. Il drago congedò amichevolmente Artan, che si inchinò un’ultima volta con gratitudine prima di raggiungere la moglie.

---
Dies irae, dies illa,
Solvet saeclum in favilla.

---

Diana stava sfogliando la lista dei danni provocati dall’esondazione del fiume Trehern, due intere pergamene di nomi, dati e problemi da risolvere; Derrick ascoltava tenendo le sopracciglia perennemente aggrottate, mentre Jacklyn passeggiava per la stanza delle assemblee con aria nervosa, interrompendo spesso la lettura del capitano per avanzare proposte. Artan fondamentalmente dormiva. Non che fosse solito ad un comportamento tanto sconveniente, ma quella settimana l’aveva messo a dura prova dovendo dividersi tra i suoi doveri alla torre e sua moglie, che peggiorava di giorno in giorno; era stato costretto ad assumere una nutrice per Shedir, perché l’infezione di Anseris non le permetteva di allattare né tantomeno di alzarsi dal letto. Artan aveva assunto Gwen, una ragazza giovane piuttosto anonima che viveva con la madre in casa Ofreel, dove servivano come cameriere e tuttofare; era stata Jacklyn a trovarla, lui non avrebbe saputo da che parte iniziare.
Non era chiaro se la ferita di Anseris si fosse contaminata per cause naturali o se la freccia era cosparsa da un qualche tipo di polvere velenosa, ma le sue condizioni si aggravarono in modo tanto rapido da risultare sospetto. Quando Artan la portò alla torre, la guarigione di Anseris era al di là anche dei poteri della sacerdotessa: senza indugiare aveva ordinato che la portassero di sopra, nelle gigantesche camere dell’Anziano Drago d’oro, le cui capacità taumaturgiche erano l’ultima speranza per sua moglie.
L’ansia e la paura di quelle ore si erano tramutate in profonda stanchezza, e Artan avrebbe dato volentieri il dito di una mano pur di dormire qualche ora, magari al piano inferiore, in infermeria, accanto a sua moglie.
Diana si interruppe bruscamente, gettando le pergamene sul tavolo. Artan si riscosse completamente mentre il mugghio del corno andava spegnendosi; la stanchezza svanì del tutto, e la sua mente iniziò ad elaborare automaticamente strategie di difesa.
«Avete sentito?» esclamò.
Anche Derrick era scattato in piedi, precipitandosi insieme a Jacklyn verso la finestra a sud.
«Non vedo niente da qui» disse quest’ultima. Jacklyn era l’unica tra loro ad avere accesso ai poteri elementali, ma nemmeno la sua magia era in grado di rilevare alcunché in quel momento.
«Scendiamo a controllare» ordinò Diana, prendendo per prima la porta che dava sulle scale.
In un attimo si ritrovarono nel piazzale davanti alla cittadella, dove videro che i cittadini avevano iniziato a radunarsi attorno ad un drappello di guardie; si fecero largo tra la folla di curiosi, spintonando senza troppe cerimonie gli impiccioni più irriducibili.
«Ergard, cosa vi è accaduto?» esclamò Diana.
L’uomo era sorretto da due delle sue migliori guardie del corpo, che di certo non avevano passato la più fortunata delle loro giornate, al pari del loro datore di lavoro: tutti e tre erano coperti di sangue, ma lord Ergard pareva quello messo peggio, con un brutto taglio lungo il viso e uno squarcio profondo nella coscia sinistra.
«Un’imboscata… Un barbaro con una pelliccia da lupo e… una creatura ambigua… Hanno ucciso il resto della mia scorta…» ringhiò Ergard, obbligandosi non senza sforzo a rimanere in piedi da solo.
«Una creatura ambigua?» chiese Jacklyn.
«Un demonio, signora! Silenzioso e inquietante come uno spettro» si intromise uno degli altri due feriti.
«Era uno spaventapasseri, uno spaventapasseri vivente!» sbraitò l’altro, sotto shock.
I quattro si scambiarono occhiate interdette, ma a nessuno parve il momento di perdersi in disquisizioni sulla possibile esistenza di manichini omicidi. Diana si voltò verso le guardie cittadine con l’aria rassicurante di un puma di fronte ad una gallina.
«Non avevo forse dato l’ordine che nessuno entrasse o uscisse da Ofcol senza un’autorizzazione? Chi ha visto passare questi due assassini?» gridò, ottenendo in risposta solo un lungo silenzio colmo di tensione.
«Molto bene, ci occuperemo di questa storia più tardi. Adesso accompagnate lord Ergard…» ma si interruppe.
Accadde tutto molto in fretta.
Ogni suono scomparve improvvisamente, inghiottito dal boato di una tremenda esplosione. L’onda d’urto fu talmente potente da sbilanciare tutta la folla riunita sul piazzale della cittadella; Artan era a terra, stordito, confuso, le orecchie che gli ronzavano, ma si rimise faticosamente in piedi cercando di razionalizzare quanto era accaduto. I suoi occhi cercarono freneticamente una giustificazione per quanto era appena successo, finché si posarono su quello che un tempo era stato il portale occidentale e capì che non era rimasto più nulla: quale arma era così potente da spazzare via mura spesse cinque metri?
Le urla di Diana lo riscossero dal suo sconcerto, gli ordinò di riorganizzare le difese nella piazza della torre, mentre Jacklyn avrebbe dovuto occuparsi di mettere in salvo la popolazione all’interno della cittadella e Derrick doveva aiutarla a sostenere il primo impatto contro il nemico.
«Ergard, andate nella torre e mettetevi al riparo» gridò Artan, ma l’altro per tutta risposta sfoderò la spada e si mosse in direzione della breccia, zoppicando e sanguinando.
«Dove diavolo andate, siete ferito!»
«L’ho notato, grazie».
«Vi farete ammazzare»
«Se così vorranno gli dei. Ma non ho intenzione di nascondermi in un buco mentre la mia città viene messa a ferro e a fuoco da mio fratello, quindi occupatevi dei vostri ordini e non osate mai più darne uno a me»
ringhiò Ergard, negli occhi una scintilla di follia.
Al diavolo pensò Artan, mentre lo guardava barcollare verso le truppe di Diana e Derrick.
«Grima! Prendi una squadra e preparatevi a chiudere le porte della cittadella. Aylar! Tu e i tuoi uomini entrate nelle case della via sud e buttate dalle finestre ogni oggetto abbastanza grande da ostruire il passaggio, dobbiamo creare una barricata tra noi e l’esercito nemico. Correte, maledizione!».
L’esercito di Ogral non era numeroso, ma poteva contare su un equipaggiamento migliore di quello della guardia cittadina, e di certo non era composto per la gran parte da ragazzi appena usciti dall’accademia, bensì da mercenari esperti del mestiere, letali, con tutta l’intenzione di guadagnare la loro paga sulla pelle dei suoi concittadini. Artan prese ad andare avanti e indietro lungo le vie attorno alla cittadella, dispensando ordini, minacce, incoraggiamenti, e aiutando i suoi uomini ad ammassare i travi e detriti, nel disperato tentativo di delineare un perimetro sicuro.
«Signore, presto, da questa parte!» lo chiamò un soldato che sorreggeva un suo commilitone completamente coperto di sangue.
«S…signore… Il Capitano Derrick….è …caduto» ansimò il ragazzo, con le ultime forze rimastegli «Il Generale Diana… la stanno… è… troppi nemici… troppo… forti». Poi sgranò gli occhi e si aggrappò con entrambe le mani alla cappa di Artan, crollandogli addosso di peso. Artan accompagnò la sua caduta con delicatezza, adagiando dolcemente il cadavere sul selciato, mentre l’armatura ed il mantello bianco si impregnavano del sangue del ragazzo.
Sfoderò Aldhibain, la sua spada, e si mosse di corsa verso la fortificazione sud, trovandosi di fronte lo spettacolo che aveva temuto di vedere: le truppe di Diana erano in rotta, alcuni drappelli stavano ancora combattendo con coraggio e a dispetto di ogni speranza di vittoria, ma la maggior parte era stata sterminata, o stava fuggendo in preda al panico. La vista di Diana circondata dai Campioni di Ogral fu come una bastonata nello stomaco per Artan: mentre l’adrenalina gli saliva insieme al furore fu tentato di abbandonare qualsiasi cosa, gli ordini, i doveri, le sue truppe, gettarsi oltre le barricate per unirsi al suo Generale a combattere e morire al suo fianco, come sarebbe dovuto essere.
Ma non lo fece.
La sua voce risuonava come un ruggito nell’aria carica di tensione, infondendo ai soldati quel briciolo di coraggio e follia necessari a vincere la paura della morte; gli uomini si disposero secondo i suoi ordini, ma erano pochi, troppo pochi per sperare in una vittoria. Artan era furioso, il suo braccio agognava il momento dello scontro con il nemico, la sua mano fremeva attorno all’elsa della spada.
Intanto, cinquecento metri più avanti, il sangue imbrattava la strada sotto gli stivali di Diana, mentre i nemici la incalzavano su ogni lato come un branco di iene attorno ad una leonessa ferita. Uno di loro portava un’armatura completa che nascondeva la sua identità, un altro era magro e dall’aspetto grottesco simile ad uno spaventapasseri e l’ultimo era un barbaro dall’aria selvaggia e crudele, che combatteva con furia cieca. Poi c’era Grent Ogral, il traditore.
Diana era esausta e coperta di ferite tanto gravi che il sangue zampillava attraverso le fessure dell’armatura, ormai consapevole di non avere alcuna possibilità di uscire viva da quello scontro.
La assaltarono di nuovo, tutti e quattro, in un attacco combinato: Diana cadde in ginocchio senza avere nemmeno la forza di alzare la spada. Chinò il capo in segno di sconfitta e strinse i pugni, sputando un grumo di sangue sul selciato. La daga del guerriero dai capelli biondi le affondò nella schiena, e Ogral le strappò la Vendicatrice Sacra di mano; poi, con un colpo preciso e terribile, calò la lama sul collo di Diana, spiccandole la testa dal corpo con la sua stessa spada. Il cadavere cadde a terra e continuò a sussultare sul selciato intriso di sangue, le articolazioni che si agitavano grottescamente in ogni direzione.
«TIRATE!» urlò Artan. Gli arcieri scoccarono la loro prima salva di frecce, ma la maggior parte di esse si conficcò negli scudi nemici, o cozzò contro i muri delle case cittadine, o sui cadaveri dei caduti usati come riparo dalle truppe mercenarie. Il gruppo di Ogral non si premurava nemmeno di parare o schivare i dardi; dovevano essere protetti da una barriera di energia di livello superiore, perché le punte delle frecce si disintegravano a pochi metri da loro, vanificando completamente gli attacchi a distanza: era chiaro che tra loro ci fosse un mago, ed anche uno piuttosto potente, ma Artan non riusciva ad individuarlo.
«AAAHHH!»
Un soldato della prima fila si era accasciato a terra gridando e contorcendosi come un indemoniato: la sua armatura si stava sciogliendo come fosse di zucchero, la pelle ed i muscoli liquefatti scivolavano via dalle ossa del cranio, cadendo a terra in una poltiglia sanguinolenta. L’uomo continuò ad urlare ancora per qualche secondo, poi rimase immobile, le vesti ancora fumanti. Lì accanto, un altro soldato subì la stessa sorte, poi un altro ancora, e ancora.
«Indietro, state indietro!» urlò Artan. Lo sguardo atterrito dei soldati saettava in ogni direzione, nel vano tentativo di capire chi o cosa li stesse colpendo, e intanto le truppe di Ogral osservavano immobili a pochi metri da loro. Il mago non aveva ancora finito: una seconda esplosione, molto più ridotta della precedente ma comunque devastante, spazzò via gran parte delle barricate in una gragnola di schegge e fuoco, ferendo gravemente una decina di soldati. I mercenari nemici si precipitarono oltre le loro linee ed iniziarono a massacrare chiunque si trovasse sulla loro strada, spingendo le truppe di Artan sempre più verso il portale della cittadella. Il cavaliere vide materializzarsi una splendida donna accanto ad Ogral, con i capelli fini e bianchi e la pelle candida come una ninfa; gli parve che sorridesse nella sua direzione, chinando lievemente il capo in segno di saluto. Un lampo gli attraversò la mente, pensò agli ordini di Diana, al terribile sbaglio di aver assegnato Jacklyn a protezione dei cittadini: le sue arti arcane avrebbero avuto speranze contro il potere terribile di quella donna? Se fosse rimasta a combattere al loro fianco forse le frecce avrebbero funzionato; sarebbe bastato un semplice incantesimo di individuazione per permettere agli uomini di vedere chi li stava colpendo, e forse le barricate avrebbero retto. Ma perché non era tornata sul campo di battaglia, una volta messa al sicuro la popolazione nella torre?
Artan afferrò la spada del mercenario davanti a sé, stringendo la lama con il guanto d’arme; la strappò di mano all’avversario e lo colpì violentemente in faccia con il pomolo di Aldhibain. L’uomo arretrò di un passo, stordito, ed Artan lo finì con un affondo. Attorno a lui la battaglia infuriava, il clangore metallico delle spade si univa alle urla di dolore, alle suppliche, ai rantolii di morte, ma le cose si mettevano sempre peggio per l’esercito di Ofcol. Per quanti nemici Artan riuscisse ad abbattere, pareva ve ne fossero pronti altrettanti a sostituirli: mentre teneva a bada due mercenari, una freccia gli sibilò accanto all’orecchio e raggiunse l’orbita oculare di Grima, trafiggendogli il cranio; un’altra si conficcò nella schiena di Artan, all’altezza dei muscoli lombari, ma non gli impedì di calare la spada sulla tempia del suo avversario. L’adrenalina gli permetteva di non provare dolore, avvertiva solo una sgradevole sensazione di umido nel punto in cui il sangue stava impregnando il gambeson e un pizzicore quando un movimento troppo brusco faceva muovere la freccia nella ferita; incuneò la punta dello stivale sotto la lancia che fino a pochi attimi prima era impugnata da Grima, la sollevò con il piede e la afferrò al volo, scagliandola immediatamente contro l’altro mercenario.
«Ritirata!» ruggì con rabbia e disperazione. La sua città stava cadendo, e lui non poteva fare niente per impedirlo. L’urlo RITIRATA riecheggiò ben presto tra le truppe, che iniziarono ad indietreggiare verso i portoni della cittadella in modo quanto più possibile compatto e ordinato. Un’altra palla di fuoco esplose poco distante, altri morti, altri uomini dilaniati lasciati ad agonizzare sul selciato: quelli che riuscirono ad entrare nella cittadella non potevano essere più di una ventina; stanchi, feriti, si aspettavano di ricevere aiuto dal drappello di Jacklyn oltre il portone, ma trovarono solo altri cadaveri. Si guardarono l’un l’altro smarriti, poi guardarono Artan come si aspettassero una spiegazione logica, o una rassicurazione.
«Sbarrate il portone con qualsiasi cosa riusciate a trovare, poi allontanatevi in fretta. Con ogni probabilità lo faranno saltare in aria» disse, usando un tono meno duro del solito. Squadrò i loro volti pallidi e sporchi, uno per uno, e gli parve che il suo cuore sprofondasse nel petto; alcuni di quei soldati erano veterani, altri non avevano nemmeno vent’anni, ma stavano combattendo per le loro donne, le loro madri, i loro figli, per il vecchio Drago d’oro; e presto sarebbero morti tutti.
Artan abbassò la spada, sfiorando il pavimento con la punta.
«Ofcol sta bruciando, la giornata è del nemico. Raggiungete i vostri cari ai piani superiori della torre, state pronti alla resa, o preparate le vostre anime alla morte. Non fate gli eroi e pensate alle vostre famiglie, se ve ne daranno l’opportunità, arrendetevi. Siate forti nella sconfitta, e anche se nessuno si ricorderà dei vostri nomi o canterà il vostro coraggio, rammentate con orgoglio che oggi avete combattuto da eroi. Non ho nulla da dire in mia discolpa, prego gli Dei nella speranza che un giorno voi e i vostri figli possiate perdonare i vostri comandanti per aver permesso tutto questo».
Portò l’elsa di Aldhibain all’altezza del cuore e si inchinò di fronte allo sconcerto dei suoi sottoposti; alcuni lo fissavano con occhi sbarrati, altri lo imitarono commossi prima di avviarsi verso i quartieri superiori della cittadella.

---
Sors immanis et inanis, rota tu volubilis
status malus, vana salus, semper dissolubilis,
obumbrata et velata, mihi quoque niteris.

---

Artan corse al tempio, completamente dimentico di avere ancora una freccia conficcata nella schiena. L’aria era satura di incenso e del fumo spesso delle candele, ma nella penombra gli parve di scorgere due sagome abbracciate; si avvicinò cautamente, finché non distinse il profilo di Jacklyn e quello dell’anziana sacerdotessa. La chierica gravava completamente sul petto della maga, come fosse svenuta; qualche passo ancora, e Artan vide la lama rossa di una daga spuntare dalla schiena della vecchia, e l’elsa nelle mani di Jacklyn. Rimase impietrito, non volendo credere a quanto era appena successo.
«Guarda un po’ chi c’è, allora sei vivo!» disse allegramente la ragazza, lasciando che il cadavere della sacerdotessa scivolasse a terra con un tonfo sordo «Sarà meglio concludere in fretta, presto arriverà Lord Grent e non vorrei farmi trovare in disordine».
Lord Grent.
Artan non aveva bisogno di altra spiegazione, né giustificazione. Afferrò Aldhibain con entrambe le mani e caricò frontalmente Jacklyn, che fece appena in tempo a creare una barriera magica attorno a sé prima che il mandritto del cavaliere le staccasse un braccio: il campo d’energia crepitò assorbendo in gran parte l’impatto, ma finì col dissolversi sotto la potenza devastante del colpo, e la lama di Artan andò ad intaccare l’armatura di Jacklyn.
«Complim…» iniziò a dire, prima che Artan le afferrasse la gola con la mano sinistra, iniziando a stringere.
Jacklyn annaspava in cerca d’aria, le unghie che stridevano sui bracciali di piastre, i piedi che scalciavano il vuoto; lo sguardo del cavaliere non aveva più niente di umano, i lineamenti del volto solitamente affascinanti erano completamente trasfigurati dalla furia. Artan si trovava in uno stato di trance, nemmeno si accorse delle dita di Jacklyn affondate nelle sue guance.
All’improvviso percepì la sua forza diminuire, sentì l’energia scorrergli via dalle membra, come dopo una lunghissima corsa; senza alcun motivo si trovò ad avere il respiro rotto, i polmoni in fiamme, e il il dolore acuto della ferita alla schiena che finalmente si faceva sentire. Lasciò la presa dal collo di Jacklyn e cadde in ginocchio, riuscendo a tenere in pugno Aldhibain solo con un grande sforzo di volontà.
«Di solito apprezzo questo genere di cose, ma iniziavi a farmi male sul serio» ridacchiò la maga, massaggiandosi il collo «Grazie per aver condiviso con me le tue preziose energie, adesso mi sento in grado di sconfiggere un drago!».
Artan tentò inutilmente di rimettersi in piedi, ma era troppo debole per sostenere il peso dell’armatura; tentò di puntellarsi con la spada, mentre Jacklyn lo osservava con una punta di compatimento.
«Non dovresti affaticarti troppo, non ti fa bene. Cosa c’è qui…» disse, estraendo la freccia con uno strattone deciso. Artan alzò la testa digrignando i denti, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore.
«Oh, una freccia, ma pensa. Scusa, credo di averti fatto un po’ male…Aspetta, ti aiuto ad alzarti»
Artan si sentì sollevare da terra da una forza invisibile, e venne scaraventato contro una colonna del tempio; per un attimo non vide più niente, riusciva a sentire solo dolore e stanchezza.
«Perdonami, a volte mi faccio trasportare un po’ troppo. Ma tu non ti reggi in piedi vecchio mio, dobbiamo fare qualcosa anche per questo» esclamò dolcemente Jacklyn, mentre due stalattiti di ghiaccio elementare andavano a conficcarsi nelle spalle di Artan, inchiodandolo alla colonna. Per la seconda volta la maga riuscì a strappargli un urlo di dolore.
«Perché…» ringhiò il cavaliere.
«Davvero non lo capisci, Artan?» sospirò Jacklyn, avvicinandosi per accarezzargli il viso «L’ho fatto perché… ti amo».
Artan aggrottò le sopracciglia, squadrandola con attenzione.
«Davvero?!»
«No»
disse, prima di scoppiare a ridere « Oh, Artan, devo ammettere che verso di te ho sempre avuto la classica cotta adolescenziale, ma se il mio unico scopo fosse stato quello di portarti a letto, mi sarebbe bastato attendere la tua crisi di mezza età. Sono sicura che prima o poi ci saresti cascato, soprattutto con quella sottospecie di mostro che ti sei preso in moglie… Comunque no, l’ho fatto per il solito, semplice, ancestrale motivo che spinge il mondo ad andare avanti: interesse personale. Grent mi ha promesso una brillante e promettente carriera: tanto oro, molti onori e la carica di capitano della cittadella, e questo solo per cominciare. Quell’uomo sa come conquistarsi la benevolenza di una fanciulla».
Jacklyn fece un giro su se stessa, schioccando le dita a tempo di una canzoncina piuttosto orecchiabile.
«Il male cammina dietro di te…
Il male dorme accanto a te…
Il male che parla ti eccita…
Il male cammina…dietro…di te (*)
Accettalo Artan, hai toppato alla grande con me!
».
Il desiderio di cancellare quel sorriso dalla faccia di Jacklyn diede al cavaliere quel briciolo di forza sufficiente ad un patetico tentativo di liberarsi, con l’unico risultato di soffrire ancora di più per le ferite; nonostante tutto però, la destra teneva ancora Aldhibain in una stretta spasmodica.
Jacklyn estrasse dalla cintola un sottile pugnale, affilato come un rasoio, e sollevò con calma il braccio sinistro di Artan; tagliò i lacci che fissavano il bracciale di piastre, sfilò il pesante guanto d’arme e arrotolò la cotta di maglia in un paio di risvolti, abbastanza da scoprire il polso.
«Visto che sei sopravvissuto fino ad ora, voglio essere generosa» disse, mentre il pugnale scivolava sulla pelle cavaliere, recidendo carne, vene e tendini. Artan non poteva far altro che guardarla, mentre lei giocava con la sua vita.
Un boato annunciò l’imminente arrivo della squadra di Ogral. Jacklyn non si scompose, ma passò all’altro braccio, quello che reggeva la spada.
«Ti rivelerò anche l’altro motivo che mi spinge a fare tutto questo».
La punta del pugnale affondò nel braccio in prossimità del guanto, e scavò alla ricerca dei tendini facendosi largo tra i muscoli. La vista di Artan iniziò ad annebbiarsi.
«Ricordi quando mi raccogliesti ai cancelli della città? Certo che ti ricordi, quel giorno non hai perso l’occasione di mostrarti cavalleresco e generoso. Ero una ragazzina senza più una patria né una famiglia, i predoni avevano razziato il mio villaggio, saccheggiato le fattorie, uccidendo, stuprando». La lama riemerse dalla carne sanguinolenta del braccio, tenendo in bilico i due tendini sul filo tagliente. Jacklyn li recise con calma, gustandosi il suono ruvido del tessuto connettivo a contatto con l’acciaio.
«La tua cara mogliettina era tra loro» disse.
Artan sentì Aldhibain cadere a terra e rimbalzare sul pavimento con un tonfo metallico; le mani non rispondevano più alla sua volontà, non poteva più stringere i pugni, né muovere le dita. Abbassò lo sguardo in cerca della sua spada, il simbolo del suo casato e del suo lignaggio di Cavaliere del Drago, ma non aveva più nemmeno la forza per disperarsi; ormai il sangue aveva formato una pozza sotto i suoi piedi e le forze lo stavano abbandonando. La stella dello zenit si stava spegnendo velocemente.
Un ruggito terribile scosse la torre e strappò Artan dal torpore, mentre Jacklyn rimaneva in ascolto con aria stranamente seria. Un nuovo boato risuonò lungo i corridoi di marmo unito all’urlo disperato di Artan, poi il silenzio: il drago d’oro era stato abbattuto.
«Non ho niente di particolare contro di te, Artan, non voglio gettarti in pasto a Lord Grent, già immagino le cose che ti farebbe. Sei un brav’uomo, ed è proprio per questo che ti trovi inchiodato ad una colonna mentre io sono qui a parlare… Credo che tu capisca anche perché ho dovuto ridurti in questo stato, non posso permettermi di vederti tornare a reclamare la testa di Ogral, o ci rimetterei la mia. Ricordalo, se sopravviverai».
Jacklyn si alzò in punta di piedi per stampargli un bacio delicato sulla fronte.
«Addio, Cavaliere del Drago» sussurrò, prima di farlo scomparire con un incantesimo di teletrasporto.

---
Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis:
gere curam mei finis.

---

Oscurità.
Artan non avrebbe saputo dire se fosse davvero notte o i suoi occhi avessero cessato di vedere.
Semplicemente non gli importava. Nulla aveva senso.
In un giorno aveva perso la sua famiglia, la sua patria, il suo onore; non gli restava più nulla, se non il buio.
Lo accolse con rassegnazione, mentre nel suo cuore andava spegnendosi il fuoco che lo distingueva come Cavaliere. Lentamente scivolava nell’oblio.
Il freddo si impossessava delle sue membra, ma già da un pezzo non sentiva più le mani; per l’ennesima volta si sforzò di muovere le dita, ma non ci riuscì.
Trasse un profondo respiro e si preparò ad incontrare gli Dei, qualunque forma essi avessero. Si chiese dove fosse andata l’anima del Drago d’oro, e se fosse vera la leggenda che li vuole trasformati in stelle, dopo la loro morte.
Attese a lungo nel buio, tanto a lungo da perdere il conto delle ore e dei giorni.
Poi aprì gli occhi, e il mondo tornò ad avere forma e luce.

«Chi sei? Dove sono?» si udì mormorare con una voce che non gli apparteneva.
«Mi chiamo Sorbus, vivo in eremitaggio in questa capanna nelle grandi pianure del nord. Sei al sicuro qui, se è questo che vuoi sapere» rispose lo strano mezz’uomo.
«Come ci sono arrivato?»
«Ti ho trovato tra gli steli d’erba mentre ero in cerca di bacche e radici per la dispensa, e ho usato le mie arti clericali per tamponare le emorragie più gravi. Non hai idea di quanto tu sia stato fortunato, le possibilità di incontrarci erano infinitesime e tu eri con un piede e mezzo nella fossa»
.
Artan socchiuse gli occhi, ringraziando gli Dei in silenzio per avergli concesso di vivere ed espiare le proprie colpe. Il fuoco nel suo cuore aveva custodito un’ultima scintilla.

I will always remember their cries, like a shadow which covers the light.
I will always remember the time, but it’s past.
All hope is gone but I swear revenge.
Hear my oath: I will take part in your damned fate.

---



(*) Ovviamente si tratta di questa canzone, che mi ha fatto un po' da colonna sonora mentre scrivevo il finale. Avrei preferito metterla in inglese, ma alla fine ho ceduto alla traduzione.

Edited by Dreyght - 4/3/2014, 09:51
 
Top
Dreyght
view post Posted on 13/3/2014, 13:05




“È difficile, mia regina, narrare dal principio alla fine le mie sventure, perché gli dei del cielo me ne inflissero molte.”

Era ormai notte quando Artan entrò nel tempio a passo di marcia, imbrattando il pavimento immacolato con una fila di orme insanguinate.
«Di nuovo?!» esclamò Wuodan, vedendolo «Ogni volta che vedo te o quell’altro state sempre sanguinando come maiali».
«Mi rammarico per i vostri pavimenti»
rispose freddamente Artan, le gocce di sangue che cadevano dalla mano scorticata, stretta a pugno.
«Non dire stupidate e vai a farti dare una rammendata dalla curatrice, ti si sono riaperte quasi tutte le ferite. Vedo che in mezza giornata fuori dal tempio hai fatto in tempo ad aggiungerne di nuove, che problemi hai?!»
«Sono molto distratto»
disse Artan, inchinandosi davanti a Wuodan e proseguendo verso le case di cura.
Anche la curatrice non fu felice di rivederlo in quello stato, dopo tutto l’impegno che aveva messo nel ricucire tutti i tagli e le lacerazioni che ricoprivano il suo corpo, gentile concessione del Demone degli Specchi. La donna si prendeva cura delle ferite, e Artan decise di pensare ad altro per non sentire i suoi borbottii contrariati e i commenti sull’imprudenza di ingaggiare uno scontro in una condizione delicata come quella. Tornò con la mente alla notte in cui aveva incontrato il Demone, quando l’emissario della Fiamma aveva incaricato lui, Goro, Tarquinn e Forgar di entrare in un labirinto pieno di trappole mortali, per recuperare una misteriosa reliquia. Ad un certo punto aveva perso di vista i suoi compagni, e si era ritrovato in una sala piena di specchi che riflettevano la sua immagine migliaia e migliaia di volte: il regno del Demone.


---

«Ho una missione da portare a termine, cosa vuoi da me per lasciarmi passare?» aveva detto, tenendo salda la spada, pronto ad ogni evenienza.
Il Demone lo guardava divertito.
«Nutrimi» disse «Qual è la tua più grande paura, Cavaliere del drago? Cosa ti tiene sveglio la notte? Raccontamelo, e sarai libero di andare».
Anche volendo, Artan non avrebbe saputo rispondere a quella domanda. Era stato addestrato a non avere mai paura, a non temere la morte, né il dolore, né la sofferenza; era cresciuto su libri che lo incitavano al controllo di ogni passione, a distaccarsi dai beni terreni e materiali, a ricercare la saggezza nella razionalità e la felicità nell’adempimento al dovere morale dettato dal suo animo. La paura, per lui, non era altro che una primordiale reazione chimica di fronte al pericolo, un sentimento che aveva imparato a controllare fin da bambino.
Avrebbe potuto mentire, inventare una qualsiasi paura comune agli esseri umani, come la morte o la malattia, ma il suo orgoglio gli impedì di scendere a patti con quella creatura.
«E se non l’avessi? Rimarrò qui per sempre?»
«No, ti lascerei comunque andare. Ma passare attraverso gli specchi non è mai un’esperienza piacevole»
«Mi dispiace, allora oggi rimarrai a dieta»
.
Il Demone lo guardò con curiosità per qualche istante, studiandolo, poi sorrise e disse: «Molto bene. A presto, Artan».

Gli aveva concesso di passare senza pagare pegno, il che significava solo una cosa: aveva qualcosa in mente. Ma quella notte Artan aveva altro di cui preoccuparsi, doveva concentrarsi sulla missione, recuperare la fiala e badare all’incolumità dei suoi compagni. Non si sorprese nemmeno che la creatura conoscesse il suo vero nome e il suo titolo di cavaliere; probabilmente li stava spiando da tempo, tutti loro.

---

Per qualche giorno tutto rimase tranquillo, finché un bagliore sinistro proveniente da una delle fontane della città attirò l’attenzione di Artan; il cavaliere si avvicinò con la spada in pugno, intuendo il pericolo, ma non si sarebbe mai aspettato la gigantesca mano che uscì dall’acqua e gli si fiondò contro per ghermirlo. Fece in tempo a calare un inutile fendente su quell’arto d’ombra, tagliando solamente aria, prima che gli artigli gli attraversassero la cotta di maglia, sprofondando nel suo petto e trascinandolo verso un’altra dimensione.
L’urlo di dolore riecheggiò nell’inferno degli specchi in cui il Demone l’aveva intrappolato; Artan si tastò il busto in cerca di orribili ferite, e rimase sorpreso nel constatare che non ve n’erano.
«Buongiorno Artan» salutò educatamente la creatura oscura, scivolando da uno specchio all’altro.
Era scuro, alto circa due metri, sebbene rimanesse costantemente curvo; due corna da caprone ornavano una testa allungata e glabra, ad eccezione della barba intrecciata che gli cresceva sul mento. Sorrideva ad Artan, mentre faceva scorrere gli artigli sugli specchi con uno stridio inquietante. Nell’aria si udivano le urla sofferenti di chissà quanti altri sventurati.
«Sai, l’altro giorno ho visto tua moglie. O quel che ne rimane, diciamo» disse allegro.
Artan poteva vedere negli specchi tutte le drammatiche scene del suo recente passato: l’assalto a Ofcol, la morte del drago, le torture di Jacklyn, gli abomini portati dalla nebbia, i volti ghignanti dei suoi nemici… e Anseris, e Grent Ogral con in braccio sua figlia Shedir.
Il demone gli vorticava attorno troppo veloce per poterlo seguire con lo sguardo, era solo un’ombra nera.
«E tua figlia, anche. In effetti preferisco tua figlia. Sono fanciulle così interessanti! Un giorno potrei decidere di mostrare loro casa mia» sibilò il demone.
Per Artan fu troppo, la rabbia prese il sopravvento e menò un colpo furioso contro il primo specchio che gli capitò a tiro. Udì una risata soddisfatta, poi un boato, e un dolore tanto lancinante da fargli annebbiare la vista: fu come se ogni molecola del suo corpo fosse stata attraversata da una lama.

---

Si ritrovò alle porte di Midgaard, solo e in fin di vita, il sangue che sgorgava a fiotti dal corpo martoriato di tagli. Usando la spada come gruccia strisciò lungo la via principale della città, arrancando contro i muri delle case che si macchiavano di rosso al suo passaggio; nel buio, i cittadini lo scambiarono per un mendicante ubriaco o un pazzo, e tirarono dritto.
Non sarebbe mai riuscito a raggiungere il tempio, se Forgar non fosse passato di lì a cavallo: lo aiutò ad issarsi sulla sella e lo trasportò velocemente dalla curatrice, che si mise subito le mani tra i capelli.
«Non capisco, la magia curativa non funziona su queste ferite. Dovremo fare alla vecchia maniera!» aveva detto, prendendo ago e filo «Questo farà male, mi dispiace».
Fece dannatamente male. Artan non riuscì a rimanere lucido per tutto il procedimento, per sua fortuna, un po’ anche grazie alla bottiglia di whisky fornita prontamente dal brigante che l’aveva salvato. Il suo orgoglio mal digeriva l’idea che fosse stato proprio Forgar ad aiutarlo, ma non era nemmeno così ingenuo da dare troppo peso alla cosa; la loro era una collaborazione fondata sulla mera necessità, e l’uno era più utile all’altro da vivo che da morto. Ciononostante si sentì sollevato quando, al suo risveglio, constatò di essere solo.
O almeno così credeva, non potendo vedere che sulla finestra oltre la testata del letto campeggiava un’ombra nera con un largo sorriso.

---

Ben presto divenne chiaro che il Demone non aveva alcuna intenzione di lasciare in pace Artan. Gli appariva ovunque ci fosse una superficie abbastanza lucida da creare un riflesso: una volta vedeva se stesso ammiccare dallo specchio, un’altra volta scorgeva un sorriso inquietante nel suo bicchiere, o un’ombra scivolare lungo la finestra; spesso poteva assistere alla morte di Diana proiettata nell’acqua di una fontana, o guardava Ofcol bruciare in una pozzanghera. Questo tormento continuo e la sofferenza provocata dalle ferite stavano mettendo a dura prova la sanità mentale di Artan, o almeno la sua già precaria pazienza.
Passò le giornate a girovagare al tempio, in un ozio che lo torturava ancora più del dolore provato ad ogni minimo movimento; ogni tanto si fermava a parlare con Wuodan, ma non poteva abusare più di tanto del suo tempo, e in quelle condizioni non era utile a nessuno.
L’unica nota positiva in quel mare di noia e inattività era Nicole.
Avevano salvato la ragazza qualche mese prima, durante il primo attacco delle creature nella nebbia che aveva colpito Germoglioreale; Artan l’aveva portata al tempio mentre Forgar e Tarquinn esploravano le fattorie, e l’aveva lasciata in custodia al Sacerdote insieme a suo padre, il capo villaggio. Quest’ultimo risultò essere stato infettato da delle larve dei mostri insettoidi contro cui stavano combattendo Artan e gli altri: le creature lo divorarono dall’interno, uccidendolo di fronte agli occhi inorriditi di Nicole. Quel giorno anche Forgar rischiò di fare la stessa fine, ma venne salvato in extremis dalla curatrice. Artan intercesse presso Wuodan perché la giovane non fosse rispedita nuovamente a fare la contadina, e chiese che non fosse lasciata sola dopo il trauma terribile di quel giorno; alla fine il Sacerdote accettò di prenderla sotto la sua protezione, con grande sollievo di Artan. Il Cavaliere pensò che le avrebbe trovato un buon lavoro in città e una famiglia tranquilla che la ospitasse, non avrebbe mai immaginato di ritrovarsela davanti, mesi dopo, in armatura completa, con sulle labbra un sorriso timido ma determinato: Wuodan l’aveva addestrata personalmente, e ora faceva parte del corpo di guardia d’elite di Midgaard; Artan non poteva essere più fiero di quella trasformazione da giovane contadina spaurita a promettente Sacerdotessa guerriera.
Nicole passava a trovarlo ogni giorno per informarsi delle sue condizioni e fare due chiacchiere, ma non poteva mai trattenersi a lungo, un po’ perché doveva tornare di ronda, un po’ perché Wuodan non sembrava apprezzare la confidenza rivolta a quello strano individuo che si spacciava per cacciatore dell’Haon-dor. Artan comprendeva perfettamente la diffidenza di Wuodan, e la assecondava. Manteneva un certo distacco per non rischiare di alimentare sentimenti inappropriati nella ragazza, anche se si sorprese più volte a guardare verso la piazza con impazienza, aspettando il suo arrivo. Gli venne quasi da ridere per quell’atteggiamento puerile da ragazzino alla sua prima cotta, così grottescamente fuori luogo in un uomo come lui, perdipiù sposato; forse Drake sarebbe stato legittimato a comportarsi così, non Artan.
In questo modo trascorsero più o meno tre settimane, durante le quali ebbe il tempo di abituarsi ai continui tormenti del Demone degli Specchi, tanto che negli ultimi tempi erano andati via via scemando: la bestia si era stancata di giocare a nascondino, e stava preparando qualche altro tiro nell’ombra.

---

Artan non dovette attendere molto.
Aveva ripreso a girare per la città dopo i recenti eventi che avevano visto Midgaard scenario di uno scontro tra entità sovrannaturali, indagando con discrezione, e cercando di tenersi lontano dai guai per non rischiare di riaprire le ferite.
Era una bella mattina primaverile, il sole aveva finalmente squarciato le nubi per riscaldare un po’ le ossa dei cittadini dopo il solito acquazzone giornaliero; Artan si era seduto su una panchina ai piedi della scalinata che portava al Tempio, leggendo il messaggio che gli era stato recapitato poco prima da un corriere della Torre della Magia.

Egregio Drake,
La Signora della Magia si scusa con Voi per l’intempestività della risposta, ma come potete immaginare ha avuto molti impegni di cui occuparsi e che richiedono tuttora la sua completa attenzione. Mi duole dunque chiederVi di pazientare, al momento non le è possibile concederVi udienza. Vi consiglio di inoltrare la Vostra richiesta in tempi più propizi, allora la Signora sarà lieta di incontrarVi.
Cordialmente Vostro,
Nigel, Segretario personale della Signora della Magia.


Rilesse il messaggio cinque volte, prima di credere alle parole che vi erano state scritte. Come poteva quella maga rifiutargli un incontro, quando lui aveva così tante informazioni vitali da comunicarle? Era allibito. Poi gli si affacciò alla mente l’improvvisa consapevolezza di non essere più Artan Eltanin, Cavaliere del Drago e Stella dello Zenit, e una fitta di rabbia gli torse le viscere; era Drake dell’Haon-dor ora, un umile ed insignificante cacciatore come tanti altri, per di più pieno di tagli come un pazzo caduto di testa su uno specchio.
Incassò stoicamente lo smacco al suo onore di Cavaliere e decise di tentare altre vie, pur di dare il suo contributo alla causa comune contro la misteriosa Nebbia; gli rimanevano ancora Kelgar e la Reggente.
Trovandosi già in piazza pensò di recarsi immediatamente dal primo, ma venne bloccato dalle sentinelle all’ingresso che lo informarono dell’assenza del Generale. Nonostante avesse molte riserve sulla veridicità di quell’informazione, Artan ringraziò e tornò sui suoi passi, dirigendosi verso la Torre del Concilio.
Se avesse avuto l’opportunità di specchiarsi senza che un demone gli proiettasse davanti agli occhi i disastri della sua vita, avrebbe notato che il suo aspetto era diventato piuttosto…selvatico: i vestiti macchiati da residui di sangue, i capelli lunghi e spettinati, la barba ormai folta, le ferite su tutto il corpo e lo sguardo spiritato, lo facevano assomigliare ad un pazzo fanatico più che ad un cacciatore. I recenti avvenimenti gli avevano fatto dimenticare l’importanza della cura personale quando si vogliono incontrare i vertici del potere cittadino, e così si presentò davanti alle guardie d’elite senza pensarci.
«Buongiorno signori, sono qui per chiedere udienza alla Reggente, Lady Reginleif» esordì, inchinandosi.
Una di loro lo squadrò con aria piena di compassione e tutti si scambiarono un’occhiata divertita.
«Buongiorno a voi» disse infine «La Reggente è molto impegnata in questi giorni, temo non potrà ricevervi in tempi brevi».
«Lo capisco, ma vorrei comunque fissare un appuntamento»
insisté Artan, rodendosi il fegato per essere costretto a mostrarsi umile e remissivo di fronte a quegli idioti.
«Come vi chiamate?»
«Drake, messere. Dell’Haon-dor».
«Molto bene»
disse flemmaticamente la guardia «Un messo vi comunicherà quando, e se, verrà fissata l’udienza».
Artan si inchinò per ringraziare, ma prima di prendere commiato decise di tentare il tutto per tutto.
«Per cortesia, vi chiedo di riferirle anche che l’oro del drago non si è estinto, lei saprà cosa significa».
Ormai le guardie non si sforzavano nemmeno di apparire compiacenti, era chiaro che stavano per scoppiargli a ridere in faccia.
«Sarà fatto, Drake dell’ Haon-dor» gli concesse la guardia, ponendo l’accento sul suo nome per metterlo in ridicolo.
Artan si congedò mantenendo un fare dignitoso, uscendo a grandi passi dal salone della Torre.

«È possibile parlare con l’Arcimago Naberius?» disse all’ingresso dell’Università.
«Mi spiace, è…»
«Occupato. Sì, capisco grazie, arrivederci»
tagliò corto Artan.
Tornò in piazza con un travaso di bile in atto, e improvvisamente un enorme braccio artigliato sbucò dal terreno, trascinando con sé lo stradino accanto a lui. Forgar capitò di lì qualche istante dopo, trovando Artan con la spada in pugno, intento a fissare con ira una pozzanghera; il brigante lo squadrò con perplessità, poi si strinse nelle spalle e bevve un sorso di birra dalla bottiglia che aveva in mano.
I due discussero per qualche minuto, quando un sonoro *PLOP* attirò la loro attenzione verso sud, in piazza centrale: il cadavere dello stradino galleggiava nella fontana, con un’espressione di puro terrore stampata sul volto. Artan lo trascinò fuori dall’acqua, affidandolo agli dei, mentre Forgar seguiva con lo sguardo un bambino che veniva verso di loro, solo.
Il bambino si avvicinò lentamente ai due, fissandoli con strani occhi vacui, e afferrò un lembo del mantello di Artan. Il cavaliere lo squadrò con freddezza.
«Signore, signore» disse con voce monocorde «Un signore mi ha detto di darti una cosa».
Il bambino aprì la sacca che portava a tracolla e ne estrasse uno specchiò, porgendolo ad Artan.
L’uomo si chinò per prenderlo: guardò il fanciullo dritto negli occhi e vide l’immagine di sua moglie Anseris che urlava disperata nell’oscurità. Inorridito, fece un balzo indietro, finendo contro il muro di una casa.
«Chi era il signore, bimbo?» chiese Forgar, notando con stupore il gesto di Artan.
Il bambino voltò la testa verso di lui, lentamente.
«Non lo so. Ma mi ha detto che ora la tua amica è con lui»
Forgar mutò repentinamente espressione, afferrando il bambino per la veste e alzandolo come un fuscello.
«Descrivimelo… »
Artan abbassò lo sguardo sullo specchio e vide di nuovo Anseris, spaventata e sofferente, che urlava in preda al dolore.
«So che mi stai ascoltando» ringhiò «Verrò a prenderti…e ti farò ingoiare uno ad uno ogni frammento dei tuoi maledettissimi specchi».
Il bambino iniziò a ridere. Era una risata orribile, cupa e gutturale, tutto fuorché umana.
Una crepa si aprì lungo la sua guancia, diramandosi come una ragnatela, poi esplose con un fragore terribile. Forgar venne investito in pieno da una gragnola di schegge e si ritrovò pieno di graffi, mentre Artan riuscì a ripararsi con il mantello appena in tempo.
Il brigante si tolse un frammento di vetro dal collo e un alto sulla fronte, appena accanto alla palpebra, bestemmiando ogni divinità esistente e non. Artan invece gettò lo specchio contro il muro con violenza: quasi si lasciò sfuggire un ruggito di rabbia quando lo vide rimbalzare a terra, intatto.
«Sai chi è il suo signore?» domandò Forgar.
«È il Demone degli specchi, lui ha rapito lo spazzino poco fa, si manifesta attraverso ogni superficie riflettente. Ha rapito Anseris, l’ho vista».
Forgar lo fissò con espressione indecifrabile attraverso la maschera di sangue che gli bagnava il volto.
«Devo controllare una cosa» disse «Vuoi venire, a patto di non fare domande?»
Artan annuì immediatamente: «Andiamo».

---

Corsero attraverso i vicoli della città per evitare la folla dell’ora di punta, inoltrandosi sempre più a sud, nei bassifondi. Oltrepassarono il ponte sul Siremid e proseguirono lungo via dei pazzi, fino al grande cancello in ferro battuto che delimitava l’accesso al manicomio cittadino.
Artan fu pervaso da una sgradevole sensazione, ma si astenne dal fare domande, non era ancora il momento. Sfondarono la porta d’ingresso senza fatica e fecero irruzione nell’atrio, gettando nel panico i pochi pazienti che avevano il permesso di girovagare per la grande sala e sbavare sulle poltrone; un infermiere dall’aria annoiata masticava qualcosa con la bocca aperta e lo osservava con scarso interesse. Accanto a lui c’era uno specchio.
Artan sfoderò la spada e senza dire una parola si fiondò rabbiosametne contro di esso, mirando alla cornice: l’aria crepitò paurosamente, l’arma rimbalzò indietro e una scarica di energia oscura si abbatté sul guerriero, che venne sbalzato contro il muro con uno schianto terribile.
«Dammi la chiave» intimò Forgar all’infermiere.
«Cos’è che vuoi?» rispose questo con aria scocciata.
«So che hai una chiave con te. Mi serve, dammela».
Il tizio alzò un sopracciglio.
«Ehhh, no?» biascicò.
Artan nel frattempo si era rimesso faticosamente in piedi. Attraversò a grandi passi la stanza, scansando Forgar e puntando direttamente l’infermiere: lo prese per il collo e lo avvicinò al bordo dello specchio.
«Vuoi friggerti il cervello, mh? Dagli la chiave»
L’ira gli annebbiava la mente, non riusciva a pensare con lucidità, l’unica cosa che voleva era cancellare l’espressione annoiata dal volto di quel patetico individuo, e che ora lo stava fissando con… un sorriso?
Strinse la presa attorno al suo collo, ma si fermò quando iniziò a sentire un inquietante scricchiolio. Pareva fosse fatto di vetro.
C’era una sola spiegazione per tutto ciò, Anseris si trovava in quel manicomio, Forgar lo sapeva, e il Demone era riuscito a raggiungerla per portarla con sé nel suo regno infernale.
Artan gettò l’infermiere contro lo specchio in un gesto impulsivo, e non rimase sorpreso quando questo andò a fondersi con la sua superficie liscia, come fossero stati della stessa materia. Forgar lo raggiunse di corsa, appoggiando una mano contro il suo riflesso. Non accadde nulla.
«Perché sei venuto subito qui, Forgar?»
«Perché qui c’era Anseris, curata e tenuta con un occhio di riguardo rispetto agli altri pazienti» rispose seccamente questo, per nulla contento di dover dare delle spiegazioni.
Per Artan fu semplicemente troppo.
Lasciò cadere la spada a terra e si gettò contro Forgar, tirandogli un pugno dritto in faccia.
La lotta fu breve ma feroce, con Artan che attaccava completamente accecato dall’ira e il brigante che si difendeva senza risparmiare i colpi. Dopo poco entrambi si trovarono a terra, ricoperti di sangue e gonfi di botte.
Forgar riuscì a sfoderare la daga, ma l’altro gli bloccò il polso con l’avambraccio, caricandolo con il suo peso; avrebbe attaccato ancora, se in quel momento il ricercatore pazzo sopravvissuto alla nebbia non si fosse messo a prendere a testate lo specchio, salmodiando parole in lingua sconosciuta.
«Azathot... Nyarlathotep...
Azathot... Nyarlathotep...
Azathot... Nyarlathotep...»

Forgar approfittò della posizione sbilanciata di Artan per spingerlo via da sé; questi si rimise in piedi e raggiunse faticosamente l’archeologo, stordendolo con un colpo per impedirgli di farsi del male.
Azathot e Nyarlathotep. Artan conosceva quei due nomi dal giorno in cui la nebbia aveva avvolto l’isola di Asgard, e misteriose creature vermiformi grandi come palazzi flagellavano la terra dei minotauri; lui, Forgar e Tarquinn si erano inoltrati nel sottosuolo ghiacciato insieme ad un campione di Mahn-Thor, seguendo le gallerie scavate dai mostri in cerca del loro nido. Rimasero sgomenti nel constatare che quelle bestie altro non erano che i tentacoli di un essere colossale, nemmeno minimamente paragonabile all’alveare putrido che avevano scovato nelle pianure del nord: Shudde M’ell aveva la stazza di un colle, e le sue appendici raggiungevano ogni angolo dell’Asgard, spingendosi fino al mare.
Eppure erano riusciti a sconfiggerlo, in qualche modo.
Al loro ritorno scortarono fino al manicomio il ricercatore folle e lo lasciarono in custodia agli infermieri, informandoli che avrebbero dovuto prestare particolarmente attenzione alla sua tendenza all’autolesionismo. Prima di separarsi, lo studioso afferrò Artan, avvicinando le labbra al suo orecchio per mormorare quei nomi, quasi fosse un segreto inconfessabile.

Forgar era di nuovo davanti allo specchio, sanguinante e furibondo.
«Azathot Nyarlathotep» disse, scandendo le parole come fossero una formula magica.
Artan scosse la testa, sputando un grumo di sangue sul tappeto consunto del corridoio.
«Sono nomi che hanno a che fare con la nebbia, non c’entrano nulla con il Demone degli specchi».
Forgar cacciò una bestemmia in risposta.
«E allora c’entra anche quella bagascia della nebbia, visto che vedo il mio riflesso annebbiato» sbottò, tastando di nuovo la superficie dello specchio.
«Sei un figlio di puttana, Forgar. Dovevi dirmi che Anseris era qui!» sibilò Artan, il respiro ancora rotto dall’ira. Se avesse potuto, avrebbe volentieri fatto a pezzi il brigante con le sue stesse mani; era una sensazione che non gli apparteneva, ma è risaputo che una giornata storta può trasformare il migliore degli uomini in un folle.
«Avevo degli ottimi motivi per non dirtelo» rispose Forgar.
«Sarebbero?»
«L’avresti portata via, e chi l’ha rinchiusa qui l’avrebbe portata via a te alla prima occasione, e io sarei stato punto e a capo. Sei spiato, come lo sono io».
«Da chi?»
«Emissari di Ogral»

Forgar continuava a tastare i bordi dello specchio, girandoci attorno, cercando chissà cosa, con l’unico risultato di far saltare i nervi ad Artan.
«NON TROVERAI NIENTE IN QUEL DANNATISSIMO SPECCHIO» gli urlò esasperato.
Il bandito si voltò verso di lui con lo sguardo che mandava saette, ma Artan non aveva ancora finito.
«Ancora non l’hai capito? Non è lo specchio la porta. L’ultima volta il demone mi ha trascinato nel suo reame attraverso la fontana della piazza, così come ha preso lo stradino sbucando da una pozzanghera. La prossima volta potrebbe essere attraverso il vetro di una finestra o il riflesso di un cucchiaio: decide lui quando aprire il portale, non possiamo farci niente!».
«Per questo motivo non intendo aspettare che faccia la sua mossa, devo arrivare alla soluzione in fretta»
si ostinò Forgar.
«In questo momento se la sta ridendo».
Il brigante si rivolse allo specchio: «Visto che sei sempre con me, ragazzo…» disse, mostrando il dito medio.
«Utile» disse Artan con tono sarcastico, attirandosi un’altra occhiataccia.
«Hai qualche idea, a parte rompermi i coglioni?»
«Non è colpa mia se sei un idiota»
ringhiò il cavaliere, che iniziava ad averne davvero abbastanza di Forgar, dei suoi modi arroganti e di quella faccia di bronzo che si ritrovava. Era sicuro che anche lui facesse in qualche modo della sua espiazione, altrimenti il Fato non gli avrebbe messo affianco un alleato tanto ottuso e testardo.
«Ho provato a chiedere aiuto alla Signora della Magia, a Naberius, alla Reggente… Secondo te per quale motivo, per prendere un tè con i pasticcini insieme a loro? Volevo parlargli anche del Demone, domandare loro consiglio su come evocarlo o attirarlo in trappola. Ma TUTTI in questo reame hanno di meglio da fare che parlare con me» aggiunse amaramente.
«Togliti i cinghiali dagli occhi, ritardato! Non frega un cazzo a nessuno di te, di me, di Anseris. In che lingua devo dirtelo?» inveì Forgar.
Artan si rese conto di dover lasciar perdere, sarebbe stato meno controproducente disquisire di filosofia con un homunculus che discutere con quel tipo.
«Perdonami se non sono avvezzo ad essere trattato come un coglione, so che a te capita spesso»
«Stai cercando di farmi incazzare più di quanto già non sia?»
disse Forgar.
Per poco Artan non lo colpì di nuovo.
«Ah sì? Ma pensa, TU saresti quello incazzato?!»
Forgar agitò la mano in un gesto disgustato e si avviò verso la porta, non senza lanciare un ultimo insulto.
«Vai a farti fottere in culo, Artan. Penso che ti riesca piuttosto bene».
«Bravo, vattene»
lo apostrofò questi «Torna a bere e andare a bagasce, l’unica cosa che sei in grado di fare».
«Artan, Cavaliere del drago, te lo dirò un’ultima volta: smettila di farmi incazzare o ti sfondo il cranio. E a meno che tu non abbia idee sul da farsi, preferisco guardare il mio riflesso in una pozzanghera, un bicchiere, una fontana, piuttosto che farmi prendere per il culo da una testa di cazzo che non sa tenere la lingua a posto quando dovrebbe».

Quello sfoggio di inutile sicurezza avrebbe quasi provocato un moto d’ilarità in Artan, se la situazione non fosse stata tanto disperata.
«Vorresti insegnarmi a vivere, Forgar? Tu?» disse con una punta di compatimento.
«Allora, hai un piano, idee, qualcosa?» chiese il brigante, cercando di mantenere un tono di voce calmo.
«Le avevo e le ho tentate, ma sono finite tutte in un vicolo cieco. Non mi rimane altro che sfidare il demone».
«Se lo trovi»
sottolineò Forgar.
«Sarà lui a trovare me» dichiarò Artan «Ora dimmi chi sono queste spie, così evito di fare passi falsi»
Forgar lo squadrò con freddezza.
«Non te lo dirò. Non sono un tuo amico o il tuo angelo custode, per la tua sopravvivenza cavatela da solo».
Il cavaliere non si stupì della risposta, né ritenne necessario spiegargli che non era la sua sopravvivenza ad interessarlo, ma quella di Anseris. Era stanco di quella pagliacciata.
«Sai che ti dico? Hai ragione. Devo essermi bevuto il cervello in questi ultimi mesi, per pensare che collaborare con la feccia della città potesse essere utile».
«Bravo. Ti senti migliore ora, prode cavaliere?»
sibilò Forgar; ma Artan era già uscito, dopo aver attraversato la stanza a grandi passi.

---
I can tell by the moon you'll be joining me soon
As a guest in my fortress of fun!
And I can't wait to see you
And once again free you
Released from your humorless air
Someday I will replace that big frown on your face
With a smile and a murderous glare…


La curatrice aveva fatto un buon lavoro, come sempre; questa volta le ferite non avevano nulla di magico, quindi era bastato un semplice incantesimo di cura per tamponare le emorragie e rimetterlo in piedi.
Non sapendo dove trascinarsi, decise di andare a fare una passeggiata nel giardino del tempio, camminando tra le farfalle che anche di notte volavano graziosamente di fiore in fiore. Era una bella notte primaverile, fredda, limpida, con un cielo stellato degno di un poema. Artan alzò lo sguardo, e contemplò in silenzio quello spettacolo meraviglioso con un cuore gonfio di angoscia che gli gravava nel petto. Nel giardino non c’era nessuno, la città era silenziosa, il fruscio del vento tra le fronde degli alberi accompagnava i pensieri di Artan, smuovendogli delicatamente il mantello e i capelli disordinati, ancora sporchi di sangue.
«Dovah, padre, antenati… io vi chiedo perdono» mormorò «Con me, oggi, la casata Eltanin ha toccato il fondo».
Sfiorò l’elsa della spada con la punta delle dita, un’impugnatura rozza per una spada mediocre, il meglio che era riuscito ad ottenere vendendo gli occhi della sua vecchia spilla, modellata come la testa di un drago. La sua mente andò immediatamente ad Aldhibain, e si chiese se fosse stata gettata nel fiume o se Ogral l’avesse regalata a Jacklyn come ulteriore premio per il suo tradimento; la spada della sua famiglia, simbolo dell’orgoglio guerriero e della fedeltà al Drago, svanita per sempre insieme ai valori che rappresentava. Drake il cacciatore doveva accontentarsi di un pezzo di ferro spuntato, e ringraziare di avere almeno quello per proteggersi dalle creature della nebbia; ma un’arma del genere non avrebbe resistito un secondo in uno scontro contro il tiranno di Ofcol.
Aldhibain aveva fatto la storia di Ofcol, e sarebbe stata destinata al suo primogenito: anche se in principio aveva sperato che nascesse maschio, dovette ricredersi dopo aver visto per la prima volta gli occhi di Shedir, perché non potevano essere più profondi e degni di un’erede di Eltanin.
Tra poco avrebbe compiuto quattro anni.
Era diventata ancora più bella?
I suoi piedini correvano veloci sui pavimenti della torre del Drago?
Le sue piccole mani si tendevano verso la balia per chiedere attenzione e carezze?
I suoi occhi brillavano ancora come la stella più luminosa della costellazione di cui portava il nome?
Per quanto ancora la sua luce sarebbe stata pura, crescendo nella tenebra?
Gli occhi di Artan guardavano lontano: a nord, oltre le pianure, c’era Ofcol.
«Mia figlia chiama padre il mio peggior nemico, a lui vanno i sorrisi, gli sguardi, e le lacrime che spetterebbero a me. Mia moglie ha perso il senno e vaga prigioniera in un reame infernale, sola, spaventata, in balia di un demone. La mia città vive e respira a comando, sotto il giogo di un tiranno. La mia casata è caduta, ed io ho avuto la disgrazia di dover assistere alla sua rovina».
Alzò nuovamente lo sguardo al cielo.
«Padre, il Fato mi è avverso. La Fiamma si prende gioco di me, la Tenebra infonde potenza ai miei nemici, togliendoli dalla mia portata. Non ho la capacità né i mezzi per aiutare le persone che amo, né attuare la mia vendetta».
«Non ho intenzione di arrendermi, non finché avrò la forza di impugnare una spada, ma come posso sperare di ottenere giustizia quando i miei nemici sono Déi e tutto ciò che possiedo è una lama sbeccata?»

Appoggiò le mani al ballatoio, con trasporto.
«Stelle, voi che avete fatto del silenzio la vostra saggezza, ditemi cosa devo fare… perché io non lo so più» pregò.
Le stelle non risposero, ma continuarono risplendere di luce tremolante, bellissime e distanti.
Artan chinò il capo e chiuse gli occhi, sentendo improvvisamente su di sé tutto il peso della solitudine.


Edited by Dreyght - 13/3/2014, 22:10
 
Top
1 replies since 3/3/2014, 20:33   82 views
  Share