Artan Eltanin, Il Cavaliere del Drago

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Dreyght
view post Posted on 13/3/2014, 13:05 by: Dreyght




“È difficile, mia regina, narrare dal principio alla fine le mie sventure, perché gli dei del cielo me ne inflissero molte.”

Era ormai notte quando Artan entrò nel tempio a passo di marcia, imbrattando il pavimento immacolato con una fila di orme insanguinate.
«Di nuovo?!» esclamò Wuodan, vedendolo «Ogni volta che vedo te o quell’altro state sempre sanguinando come maiali».
«Mi rammarico per i vostri pavimenti»
rispose freddamente Artan, le gocce di sangue che cadevano dalla mano scorticata, stretta a pugno.
«Non dire stupidate e vai a farti dare una rammendata dalla curatrice, ti si sono riaperte quasi tutte le ferite. Vedo che in mezza giornata fuori dal tempio hai fatto in tempo ad aggiungerne di nuove, che problemi hai?!»
«Sono molto distratto»
disse Artan, inchinandosi davanti a Wuodan e proseguendo verso le case di cura.
Anche la curatrice non fu felice di rivederlo in quello stato, dopo tutto l’impegno che aveva messo nel ricucire tutti i tagli e le lacerazioni che ricoprivano il suo corpo, gentile concessione del Demone degli Specchi. La donna si prendeva cura delle ferite, e Artan decise di pensare ad altro per non sentire i suoi borbottii contrariati e i commenti sull’imprudenza di ingaggiare uno scontro in una condizione delicata come quella. Tornò con la mente alla notte in cui aveva incontrato il Demone, quando l’emissario della Fiamma aveva incaricato lui, Goro, Tarquinn e Forgar di entrare in un labirinto pieno di trappole mortali, per recuperare una misteriosa reliquia. Ad un certo punto aveva perso di vista i suoi compagni, e si era ritrovato in una sala piena di specchi che riflettevano la sua immagine migliaia e migliaia di volte: il regno del Demone.


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«Ho una missione da portare a termine, cosa vuoi da me per lasciarmi passare?» aveva detto, tenendo salda la spada, pronto ad ogni evenienza.
Il Demone lo guardava divertito.
«Nutrimi» disse «Qual è la tua più grande paura, Cavaliere del drago? Cosa ti tiene sveglio la notte? Raccontamelo, e sarai libero di andare».
Anche volendo, Artan non avrebbe saputo rispondere a quella domanda. Era stato addestrato a non avere mai paura, a non temere la morte, né il dolore, né la sofferenza; era cresciuto su libri che lo incitavano al controllo di ogni passione, a distaccarsi dai beni terreni e materiali, a ricercare la saggezza nella razionalità e la felicità nell’adempimento al dovere morale dettato dal suo animo. La paura, per lui, non era altro che una primordiale reazione chimica di fronte al pericolo, un sentimento che aveva imparato a controllare fin da bambino.
Avrebbe potuto mentire, inventare una qualsiasi paura comune agli esseri umani, come la morte o la malattia, ma il suo orgoglio gli impedì di scendere a patti con quella creatura.
«E se non l’avessi? Rimarrò qui per sempre?»
«No, ti lascerei comunque andare. Ma passare attraverso gli specchi non è mai un’esperienza piacevole»
«Mi dispiace, allora oggi rimarrai a dieta»
.
Il Demone lo guardò con curiosità per qualche istante, studiandolo, poi sorrise e disse: «Molto bene. A presto, Artan».

Gli aveva concesso di passare senza pagare pegno, il che significava solo una cosa: aveva qualcosa in mente. Ma quella notte Artan aveva altro di cui preoccuparsi, doveva concentrarsi sulla missione, recuperare la fiala e badare all’incolumità dei suoi compagni. Non si sorprese nemmeno che la creatura conoscesse il suo vero nome e il suo titolo di cavaliere; probabilmente li stava spiando da tempo, tutti loro.

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Per qualche giorno tutto rimase tranquillo, finché un bagliore sinistro proveniente da una delle fontane della città attirò l’attenzione di Artan; il cavaliere si avvicinò con la spada in pugno, intuendo il pericolo, ma non si sarebbe mai aspettato la gigantesca mano che uscì dall’acqua e gli si fiondò contro per ghermirlo. Fece in tempo a calare un inutile fendente su quell’arto d’ombra, tagliando solamente aria, prima che gli artigli gli attraversassero la cotta di maglia, sprofondando nel suo petto e trascinandolo verso un’altra dimensione.
L’urlo di dolore riecheggiò nell’inferno degli specchi in cui il Demone l’aveva intrappolato; Artan si tastò il busto in cerca di orribili ferite, e rimase sorpreso nel constatare che non ve n’erano.
«Buongiorno Artan» salutò educatamente la creatura oscura, scivolando da uno specchio all’altro.
Era scuro, alto circa due metri, sebbene rimanesse costantemente curvo; due corna da caprone ornavano una testa allungata e glabra, ad eccezione della barba intrecciata che gli cresceva sul mento. Sorrideva ad Artan, mentre faceva scorrere gli artigli sugli specchi con uno stridio inquietante. Nell’aria si udivano le urla sofferenti di chissà quanti altri sventurati.
«Sai, l’altro giorno ho visto tua moglie. O quel che ne rimane, diciamo» disse allegro.
Artan poteva vedere negli specchi tutte le drammatiche scene del suo recente passato: l’assalto a Ofcol, la morte del drago, le torture di Jacklyn, gli abomini portati dalla nebbia, i volti ghignanti dei suoi nemici… e Anseris, e Grent Ogral con in braccio sua figlia Shedir.
Il demone gli vorticava attorno troppo veloce per poterlo seguire con lo sguardo, era solo un’ombra nera.
«E tua figlia, anche. In effetti preferisco tua figlia. Sono fanciulle così interessanti! Un giorno potrei decidere di mostrare loro casa mia» sibilò il demone.
Per Artan fu troppo, la rabbia prese il sopravvento e menò un colpo furioso contro il primo specchio che gli capitò a tiro. Udì una risata soddisfatta, poi un boato, e un dolore tanto lancinante da fargli annebbiare la vista: fu come se ogni molecola del suo corpo fosse stata attraversata da una lama.

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Si ritrovò alle porte di Midgaard, solo e in fin di vita, il sangue che sgorgava a fiotti dal corpo martoriato di tagli. Usando la spada come gruccia strisciò lungo la via principale della città, arrancando contro i muri delle case che si macchiavano di rosso al suo passaggio; nel buio, i cittadini lo scambiarono per un mendicante ubriaco o un pazzo, e tirarono dritto.
Non sarebbe mai riuscito a raggiungere il tempio, se Forgar non fosse passato di lì a cavallo: lo aiutò ad issarsi sulla sella e lo trasportò velocemente dalla curatrice, che si mise subito le mani tra i capelli.
«Non capisco, la magia curativa non funziona su queste ferite. Dovremo fare alla vecchia maniera!» aveva detto, prendendo ago e filo «Questo farà male, mi dispiace».
Fece dannatamente male. Artan non riuscì a rimanere lucido per tutto il procedimento, per sua fortuna, un po’ anche grazie alla bottiglia di whisky fornita prontamente dal brigante che l’aveva salvato. Il suo orgoglio mal digeriva l’idea che fosse stato proprio Forgar ad aiutarlo, ma non era nemmeno così ingenuo da dare troppo peso alla cosa; la loro era una collaborazione fondata sulla mera necessità, e l’uno era più utile all’altro da vivo che da morto. Ciononostante si sentì sollevato quando, al suo risveglio, constatò di essere solo.
O almeno così credeva, non potendo vedere che sulla finestra oltre la testata del letto campeggiava un’ombra nera con un largo sorriso.

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Ben presto divenne chiaro che il Demone non aveva alcuna intenzione di lasciare in pace Artan. Gli appariva ovunque ci fosse una superficie abbastanza lucida da creare un riflesso: una volta vedeva se stesso ammiccare dallo specchio, un’altra volta scorgeva un sorriso inquietante nel suo bicchiere, o un’ombra scivolare lungo la finestra; spesso poteva assistere alla morte di Diana proiettata nell’acqua di una fontana, o guardava Ofcol bruciare in una pozzanghera. Questo tormento continuo e la sofferenza provocata dalle ferite stavano mettendo a dura prova la sanità mentale di Artan, o almeno la sua già precaria pazienza.
Passò le giornate a girovagare al tempio, in un ozio che lo torturava ancora più del dolore provato ad ogni minimo movimento; ogni tanto si fermava a parlare con Wuodan, ma non poteva abusare più di tanto del suo tempo, e in quelle condizioni non era utile a nessuno.
L’unica nota positiva in quel mare di noia e inattività era Nicole.
Avevano salvato la ragazza qualche mese prima, durante il primo attacco delle creature nella nebbia che aveva colpito Germoglioreale; Artan l’aveva portata al tempio mentre Forgar e Tarquinn esploravano le fattorie, e l’aveva lasciata in custodia al Sacerdote insieme a suo padre, il capo villaggio. Quest’ultimo risultò essere stato infettato da delle larve dei mostri insettoidi contro cui stavano combattendo Artan e gli altri: le creature lo divorarono dall’interno, uccidendolo di fronte agli occhi inorriditi di Nicole. Quel giorno anche Forgar rischiò di fare la stessa fine, ma venne salvato in extremis dalla curatrice. Artan intercesse presso Wuodan perché la giovane non fosse rispedita nuovamente a fare la contadina, e chiese che non fosse lasciata sola dopo il trauma terribile di quel giorno; alla fine il Sacerdote accettò di prenderla sotto la sua protezione, con grande sollievo di Artan. Il Cavaliere pensò che le avrebbe trovato un buon lavoro in città e una famiglia tranquilla che la ospitasse, non avrebbe mai immaginato di ritrovarsela davanti, mesi dopo, in armatura completa, con sulle labbra un sorriso timido ma determinato: Wuodan l’aveva addestrata personalmente, e ora faceva parte del corpo di guardia d’elite di Midgaard; Artan non poteva essere più fiero di quella trasformazione da giovane contadina spaurita a promettente Sacerdotessa guerriera.
Nicole passava a trovarlo ogni giorno per informarsi delle sue condizioni e fare due chiacchiere, ma non poteva mai trattenersi a lungo, un po’ perché doveva tornare di ronda, un po’ perché Wuodan non sembrava apprezzare la confidenza rivolta a quello strano individuo che si spacciava per cacciatore dell’Haon-dor. Artan comprendeva perfettamente la diffidenza di Wuodan, e la assecondava. Manteneva un certo distacco per non rischiare di alimentare sentimenti inappropriati nella ragazza, anche se si sorprese più volte a guardare verso la piazza con impazienza, aspettando il suo arrivo. Gli venne quasi da ridere per quell’atteggiamento puerile da ragazzino alla sua prima cotta, così grottescamente fuori luogo in un uomo come lui, perdipiù sposato; forse Drake sarebbe stato legittimato a comportarsi così, non Artan.
In questo modo trascorsero più o meno tre settimane, durante le quali ebbe il tempo di abituarsi ai continui tormenti del Demone degli Specchi, tanto che negli ultimi tempi erano andati via via scemando: la bestia si era stancata di giocare a nascondino, e stava preparando qualche altro tiro nell’ombra.

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Artan non dovette attendere molto.
Aveva ripreso a girare per la città dopo i recenti eventi che avevano visto Midgaard scenario di uno scontro tra entità sovrannaturali, indagando con discrezione, e cercando di tenersi lontano dai guai per non rischiare di riaprire le ferite.
Era una bella mattina primaverile, il sole aveva finalmente squarciato le nubi per riscaldare un po’ le ossa dei cittadini dopo il solito acquazzone giornaliero; Artan si era seduto su una panchina ai piedi della scalinata che portava al Tempio, leggendo il messaggio che gli era stato recapitato poco prima da un corriere della Torre della Magia.

Egregio Drake,
La Signora della Magia si scusa con Voi per l’intempestività della risposta, ma come potete immaginare ha avuto molti impegni di cui occuparsi e che richiedono tuttora la sua completa attenzione. Mi duole dunque chiederVi di pazientare, al momento non le è possibile concederVi udienza. Vi consiglio di inoltrare la Vostra richiesta in tempi più propizi, allora la Signora sarà lieta di incontrarVi.
Cordialmente Vostro,
Nigel, Segretario personale della Signora della Magia.


Rilesse il messaggio cinque volte, prima di credere alle parole che vi erano state scritte. Come poteva quella maga rifiutargli un incontro, quando lui aveva così tante informazioni vitali da comunicarle? Era allibito. Poi gli si affacciò alla mente l’improvvisa consapevolezza di non essere più Artan Eltanin, Cavaliere del Drago e Stella dello Zenit, e una fitta di rabbia gli torse le viscere; era Drake dell’Haon-dor ora, un umile ed insignificante cacciatore come tanti altri, per di più pieno di tagli come un pazzo caduto di testa su uno specchio.
Incassò stoicamente lo smacco al suo onore di Cavaliere e decise di tentare altre vie, pur di dare il suo contributo alla causa comune contro la misteriosa Nebbia; gli rimanevano ancora Kelgar e la Reggente.
Trovandosi già in piazza pensò di recarsi immediatamente dal primo, ma venne bloccato dalle sentinelle all’ingresso che lo informarono dell’assenza del Generale. Nonostante avesse molte riserve sulla veridicità di quell’informazione, Artan ringraziò e tornò sui suoi passi, dirigendosi verso la Torre del Concilio.
Se avesse avuto l’opportunità di specchiarsi senza che un demone gli proiettasse davanti agli occhi i disastri della sua vita, avrebbe notato che il suo aspetto era diventato piuttosto…selvatico: i vestiti macchiati da residui di sangue, i capelli lunghi e spettinati, la barba ormai folta, le ferite su tutto il corpo e lo sguardo spiritato, lo facevano assomigliare ad un pazzo fanatico più che ad un cacciatore. I recenti avvenimenti gli avevano fatto dimenticare l’importanza della cura personale quando si vogliono incontrare i vertici del potere cittadino, e così si presentò davanti alle guardie d’elite senza pensarci.
«Buongiorno signori, sono qui per chiedere udienza alla Reggente, Lady Reginleif» esordì, inchinandosi.
Una di loro lo squadrò con aria piena di compassione e tutti si scambiarono un’occhiata divertita.
«Buongiorno a voi» disse infine «La Reggente è molto impegnata in questi giorni, temo non potrà ricevervi in tempi brevi».
«Lo capisco, ma vorrei comunque fissare un appuntamento»
insisté Artan, rodendosi il fegato per essere costretto a mostrarsi umile e remissivo di fronte a quegli idioti.
«Come vi chiamate?»
«Drake, messere. Dell’Haon-dor».
«Molto bene»
disse flemmaticamente la guardia «Un messo vi comunicherà quando, e se, verrà fissata l’udienza».
Artan si inchinò per ringraziare, ma prima di prendere commiato decise di tentare il tutto per tutto.
«Per cortesia, vi chiedo di riferirle anche che l’oro del drago non si è estinto, lei saprà cosa significa».
Ormai le guardie non si sforzavano nemmeno di apparire compiacenti, era chiaro che stavano per scoppiargli a ridere in faccia.
«Sarà fatto, Drake dell’ Haon-dor» gli concesse la guardia, ponendo l’accento sul suo nome per metterlo in ridicolo.
Artan si congedò mantenendo un fare dignitoso, uscendo a grandi passi dal salone della Torre.

«È possibile parlare con l’Arcimago Naberius?» disse all’ingresso dell’Università.
«Mi spiace, è…»
«Occupato. Sì, capisco grazie, arrivederci»
tagliò corto Artan.
Tornò in piazza con un travaso di bile in atto, e improvvisamente un enorme braccio artigliato sbucò dal terreno, trascinando con sé lo stradino accanto a lui. Forgar capitò di lì qualche istante dopo, trovando Artan con la spada in pugno, intento a fissare con ira una pozzanghera; il brigante lo squadrò con perplessità, poi si strinse nelle spalle e bevve un sorso di birra dalla bottiglia che aveva in mano.
I due discussero per qualche minuto, quando un sonoro *PLOP* attirò la loro attenzione verso sud, in piazza centrale: il cadavere dello stradino galleggiava nella fontana, con un’espressione di puro terrore stampata sul volto. Artan lo trascinò fuori dall’acqua, affidandolo agli dei, mentre Forgar seguiva con lo sguardo un bambino che veniva verso di loro, solo.
Il bambino si avvicinò lentamente ai due, fissandoli con strani occhi vacui, e afferrò un lembo del mantello di Artan. Il cavaliere lo squadrò con freddezza.
«Signore, signore» disse con voce monocorde «Un signore mi ha detto di darti una cosa».
Il bambino aprì la sacca che portava a tracolla e ne estrasse uno specchiò, porgendolo ad Artan.
L’uomo si chinò per prenderlo: guardò il fanciullo dritto negli occhi e vide l’immagine di sua moglie Anseris che urlava disperata nell’oscurità. Inorridito, fece un balzo indietro, finendo contro il muro di una casa.
«Chi era il signore, bimbo?» chiese Forgar, notando con stupore il gesto di Artan.
Il bambino voltò la testa verso di lui, lentamente.
«Non lo so. Ma mi ha detto che ora la tua amica è con lui»
Forgar mutò repentinamente espressione, afferrando il bambino per la veste e alzandolo come un fuscello.
«Descrivimelo… »
Artan abbassò lo sguardo sullo specchio e vide di nuovo Anseris, spaventata e sofferente, che urlava in preda al dolore.
«So che mi stai ascoltando» ringhiò «Verrò a prenderti…e ti farò ingoiare uno ad uno ogni frammento dei tuoi maledettissimi specchi».
Il bambino iniziò a ridere. Era una risata orribile, cupa e gutturale, tutto fuorché umana.
Una crepa si aprì lungo la sua guancia, diramandosi come una ragnatela, poi esplose con un fragore terribile. Forgar venne investito in pieno da una gragnola di schegge e si ritrovò pieno di graffi, mentre Artan riuscì a ripararsi con il mantello appena in tempo.
Il brigante si tolse un frammento di vetro dal collo e un alto sulla fronte, appena accanto alla palpebra, bestemmiando ogni divinità esistente e non. Artan invece gettò lo specchio contro il muro con violenza: quasi si lasciò sfuggire un ruggito di rabbia quando lo vide rimbalzare a terra, intatto.
«Sai chi è il suo signore?» domandò Forgar.
«È il Demone degli specchi, lui ha rapito lo spazzino poco fa, si manifesta attraverso ogni superficie riflettente. Ha rapito Anseris, l’ho vista».
Forgar lo fissò con espressione indecifrabile attraverso la maschera di sangue che gli bagnava il volto.
«Devo controllare una cosa» disse «Vuoi venire, a patto di non fare domande?»
Artan annuì immediatamente: «Andiamo».

---

Corsero attraverso i vicoli della città per evitare la folla dell’ora di punta, inoltrandosi sempre più a sud, nei bassifondi. Oltrepassarono il ponte sul Siremid e proseguirono lungo via dei pazzi, fino al grande cancello in ferro battuto che delimitava l’accesso al manicomio cittadino.
Artan fu pervaso da una sgradevole sensazione, ma si astenne dal fare domande, non era ancora il momento. Sfondarono la porta d’ingresso senza fatica e fecero irruzione nell’atrio, gettando nel panico i pochi pazienti che avevano il permesso di girovagare per la grande sala e sbavare sulle poltrone; un infermiere dall’aria annoiata masticava qualcosa con la bocca aperta e lo osservava con scarso interesse. Accanto a lui c’era uno specchio.
Artan sfoderò la spada e senza dire una parola si fiondò rabbiosametne contro di esso, mirando alla cornice: l’aria crepitò paurosamente, l’arma rimbalzò indietro e una scarica di energia oscura si abbatté sul guerriero, che venne sbalzato contro il muro con uno schianto terribile.
«Dammi la chiave» intimò Forgar all’infermiere.
«Cos’è che vuoi?» rispose questo con aria scocciata.
«So che hai una chiave con te. Mi serve, dammela».
Il tizio alzò un sopracciglio.
«Ehhh, no?» biascicò.
Artan nel frattempo si era rimesso faticosamente in piedi. Attraversò a grandi passi la stanza, scansando Forgar e puntando direttamente l’infermiere: lo prese per il collo e lo avvicinò al bordo dello specchio.
«Vuoi friggerti il cervello, mh? Dagli la chiave»
L’ira gli annebbiava la mente, non riusciva a pensare con lucidità, l’unica cosa che voleva era cancellare l’espressione annoiata dal volto di quel patetico individuo, e che ora lo stava fissando con… un sorriso?
Strinse la presa attorno al suo collo, ma si fermò quando iniziò a sentire un inquietante scricchiolio. Pareva fosse fatto di vetro.
C’era una sola spiegazione per tutto ciò, Anseris si trovava in quel manicomio, Forgar lo sapeva, e il Demone era riuscito a raggiungerla per portarla con sé nel suo regno infernale.
Artan gettò l’infermiere contro lo specchio in un gesto impulsivo, e non rimase sorpreso quando questo andò a fondersi con la sua superficie liscia, come fossero stati della stessa materia. Forgar lo raggiunse di corsa, appoggiando una mano contro il suo riflesso. Non accadde nulla.
«Perché sei venuto subito qui, Forgar?»
«Perché qui c’era Anseris, curata e tenuta con un occhio di riguardo rispetto agli altri pazienti» rispose seccamente questo, per nulla contento di dover dare delle spiegazioni.
Per Artan fu semplicemente troppo.
Lasciò cadere la spada a terra e si gettò contro Forgar, tirandogli un pugno dritto in faccia.
La lotta fu breve ma feroce, con Artan che attaccava completamente accecato dall’ira e il brigante che si difendeva senza risparmiare i colpi. Dopo poco entrambi si trovarono a terra, ricoperti di sangue e gonfi di botte.
Forgar riuscì a sfoderare la daga, ma l’altro gli bloccò il polso con l’avambraccio, caricandolo con il suo peso; avrebbe attaccato ancora, se in quel momento il ricercatore pazzo sopravvissuto alla nebbia non si fosse messo a prendere a testate lo specchio, salmodiando parole in lingua sconosciuta.
«Azathot... Nyarlathotep...
Azathot... Nyarlathotep...
Azathot... Nyarlathotep...»

Forgar approfittò della posizione sbilanciata di Artan per spingerlo via da sé; questi si rimise in piedi e raggiunse faticosamente l’archeologo, stordendolo con un colpo per impedirgli di farsi del male.
Azathot e Nyarlathotep. Artan conosceva quei due nomi dal giorno in cui la nebbia aveva avvolto l’isola di Asgard, e misteriose creature vermiformi grandi come palazzi flagellavano la terra dei minotauri; lui, Forgar e Tarquinn si erano inoltrati nel sottosuolo ghiacciato insieme ad un campione di Mahn-Thor, seguendo le gallerie scavate dai mostri in cerca del loro nido. Rimasero sgomenti nel constatare che quelle bestie altro non erano che i tentacoli di un essere colossale, nemmeno minimamente paragonabile all’alveare putrido che avevano scovato nelle pianure del nord: Shudde M’ell aveva la stazza di un colle, e le sue appendici raggiungevano ogni angolo dell’Asgard, spingendosi fino al mare.
Eppure erano riusciti a sconfiggerlo, in qualche modo.
Al loro ritorno scortarono fino al manicomio il ricercatore folle e lo lasciarono in custodia agli infermieri, informandoli che avrebbero dovuto prestare particolarmente attenzione alla sua tendenza all’autolesionismo. Prima di separarsi, lo studioso afferrò Artan, avvicinando le labbra al suo orecchio per mormorare quei nomi, quasi fosse un segreto inconfessabile.

Forgar era di nuovo davanti allo specchio, sanguinante e furibondo.
«Azathot Nyarlathotep» disse, scandendo le parole come fossero una formula magica.
Artan scosse la testa, sputando un grumo di sangue sul tappeto consunto del corridoio.
«Sono nomi che hanno a che fare con la nebbia, non c’entrano nulla con il Demone degli specchi».
Forgar cacciò una bestemmia in risposta.
«E allora c’entra anche quella bagascia della nebbia, visto che vedo il mio riflesso annebbiato» sbottò, tastando di nuovo la superficie dello specchio.
«Sei un figlio di puttana, Forgar. Dovevi dirmi che Anseris era qui!» sibilò Artan, il respiro ancora rotto dall’ira. Se avesse potuto, avrebbe volentieri fatto a pezzi il brigante con le sue stesse mani; era una sensazione che non gli apparteneva, ma è risaputo che una giornata storta può trasformare il migliore degli uomini in un folle.
«Avevo degli ottimi motivi per non dirtelo» rispose Forgar.
«Sarebbero?»
«L’avresti portata via, e chi l’ha rinchiusa qui l’avrebbe portata via a te alla prima occasione, e io sarei stato punto e a capo. Sei spiato, come lo sono io».
«Da chi?»
«Emissari di Ogral»

Forgar continuava a tastare i bordi dello specchio, girandoci attorno, cercando chissà cosa, con l’unico risultato di far saltare i nervi ad Artan.
«NON TROVERAI NIENTE IN QUEL DANNATISSIMO SPECCHIO» gli urlò esasperato.
Il bandito si voltò verso di lui con lo sguardo che mandava saette, ma Artan non aveva ancora finito.
«Ancora non l’hai capito? Non è lo specchio la porta. L’ultima volta il demone mi ha trascinato nel suo reame attraverso la fontana della piazza, così come ha preso lo stradino sbucando da una pozzanghera. La prossima volta potrebbe essere attraverso il vetro di una finestra o il riflesso di un cucchiaio: decide lui quando aprire il portale, non possiamo farci niente!».
«Per questo motivo non intendo aspettare che faccia la sua mossa, devo arrivare alla soluzione in fretta»
si ostinò Forgar.
«In questo momento se la sta ridendo».
Il brigante si rivolse allo specchio: «Visto che sei sempre con me, ragazzo…» disse, mostrando il dito medio.
«Utile» disse Artan con tono sarcastico, attirandosi un’altra occhiataccia.
«Hai qualche idea, a parte rompermi i coglioni?»
«Non è colpa mia se sei un idiota»
ringhiò il cavaliere, che iniziava ad averne davvero abbastanza di Forgar, dei suoi modi arroganti e di quella faccia di bronzo che si ritrovava. Era sicuro che anche lui facesse in qualche modo della sua espiazione, altrimenti il Fato non gli avrebbe messo affianco un alleato tanto ottuso e testardo.
«Ho provato a chiedere aiuto alla Signora della Magia, a Naberius, alla Reggente… Secondo te per quale motivo, per prendere un tè con i pasticcini insieme a loro? Volevo parlargli anche del Demone, domandare loro consiglio su come evocarlo o attirarlo in trappola. Ma TUTTI in questo reame hanno di meglio da fare che parlare con me» aggiunse amaramente.
«Togliti i cinghiali dagli occhi, ritardato! Non frega un cazzo a nessuno di te, di me, di Anseris. In che lingua devo dirtelo?» inveì Forgar.
Artan si rese conto di dover lasciar perdere, sarebbe stato meno controproducente disquisire di filosofia con un homunculus che discutere con quel tipo.
«Perdonami se non sono avvezzo ad essere trattato come un coglione, so che a te capita spesso»
«Stai cercando di farmi incazzare più di quanto già non sia?»
disse Forgar.
Per poco Artan non lo colpì di nuovo.
«Ah sì? Ma pensa, TU saresti quello incazzato?!»
Forgar agitò la mano in un gesto disgustato e si avviò verso la porta, non senza lanciare un ultimo insulto.
«Vai a farti fottere in culo, Artan. Penso che ti riesca piuttosto bene».
«Bravo, vattene»
lo apostrofò questi «Torna a bere e andare a bagasce, l’unica cosa che sei in grado di fare».
«Artan, Cavaliere del drago, te lo dirò un’ultima volta: smettila di farmi incazzare o ti sfondo il cranio. E a meno che tu non abbia idee sul da farsi, preferisco guardare il mio riflesso in una pozzanghera, un bicchiere, una fontana, piuttosto che farmi prendere per il culo da una testa di cazzo che non sa tenere la lingua a posto quando dovrebbe».

Quello sfoggio di inutile sicurezza avrebbe quasi provocato un moto d’ilarità in Artan, se la situazione non fosse stata tanto disperata.
«Vorresti insegnarmi a vivere, Forgar? Tu?» disse con una punta di compatimento.
«Allora, hai un piano, idee, qualcosa?» chiese il brigante, cercando di mantenere un tono di voce calmo.
«Le avevo e le ho tentate, ma sono finite tutte in un vicolo cieco. Non mi rimane altro che sfidare il demone».
«Se lo trovi»
sottolineò Forgar.
«Sarà lui a trovare me» dichiarò Artan «Ora dimmi chi sono queste spie, così evito di fare passi falsi»
Forgar lo squadrò con freddezza.
«Non te lo dirò. Non sono un tuo amico o il tuo angelo custode, per la tua sopravvivenza cavatela da solo».
Il cavaliere non si stupì della risposta, né ritenne necessario spiegargli che non era la sua sopravvivenza ad interessarlo, ma quella di Anseris. Era stanco di quella pagliacciata.
«Sai che ti dico? Hai ragione. Devo essermi bevuto il cervello in questi ultimi mesi, per pensare che collaborare con la feccia della città potesse essere utile».
«Bravo. Ti senti migliore ora, prode cavaliere?»
sibilò Forgar; ma Artan era già uscito, dopo aver attraversato la stanza a grandi passi.

---
I can tell by the moon you'll be joining me soon
As a guest in my fortress of fun!
And I can't wait to see you
And once again free you
Released from your humorless air
Someday I will replace that big frown on your face
With a smile and a murderous glare…


La curatrice aveva fatto un buon lavoro, come sempre; questa volta le ferite non avevano nulla di magico, quindi era bastato un semplice incantesimo di cura per tamponare le emorragie e rimetterlo in piedi.
Non sapendo dove trascinarsi, decise di andare a fare una passeggiata nel giardino del tempio, camminando tra le farfalle che anche di notte volavano graziosamente di fiore in fiore. Era una bella notte primaverile, fredda, limpida, con un cielo stellato degno di un poema. Artan alzò lo sguardo, e contemplò in silenzio quello spettacolo meraviglioso con un cuore gonfio di angoscia che gli gravava nel petto. Nel giardino non c’era nessuno, la città era silenziosa, il fruscio del vento tra le fronde degli alberi accompagnava i pensieri di Artan, smuovendogli delicatamente il mantello e i capelli disordinati, ancora sporchi di sangue.
«Dovah, padre, antenati… io vi chiedo perdono» mormorò «Con me, oggi, la casata Eltanin ha toccato il fondo».
Sfiorò l’elsa della spada con la punta delle dita, un’impugnatura rozza per una spada mediocre, il meglio che era riuscito ad ottenere vendendo gli occhi della sua vecchia spilla, modellata come la testa di un drago. La sua mente andò immediatamente ad Aldhibain, e si chiese se fosse stata gettata nel fiume o se Ogral l’avesse regalata a Jacklyn come ulteriore premio per il suo tradimento; la spada della sua famiglia, simbolo dell’orgoglio guerriero e della fedeltà al Drago, svanita per sempre insieme ai valori che rappresentava. Drake il cacciatore doveva accontentarsi di un pezzo di ferro spuntato, e ringraziare di avere almeno quello per proteggersi dalle creature della nebbia; ma un’arma del genere non avrebbe resistito un secondo in uno scontro contro il tiranno di Ofcol.
Aldhibain aveva fatto la storia di Ofcol, e sarebbe stata destinata al suo primogenito: anche se in principio aveva sperato che nascesse maschio, dovette ricredersi dopo aver visto per la prima volta gli occhi di Shedir, perché non potevano essere più profondi e degni di un’erede di Eltanin.
Tra poco avrebbe compiuto quattro anni.
Era diventata ancora più bella?
I suoi piedini correvano veloci sui pavimenti della torre del Drago?
Le sue piccole mani si tendevano verso la balia per chiedere attenzione e carezze?
I suoi occhi brillavano ancora come la stella più luminosa della costellazione di cui portava il nome?
Per quanto ancora la sua luce sarebbe stata pura, crescendo nella tenebra?
Gli occhi di Artan guardavano lontano: a nord, oltre le pianure, c’era Ofcol.
«Mia figlia chiama padre il mio peggior nemico, a lui vanno i sorrisi, gli sguardi, e le lacrime che spetterebbero a me. Mia moglie ha perso il senno e vaga prigioniera in un reame infernale, sola, spaventata, in balia di un demone. La mia città vive e respira a comando, sotto il giogo di un tiranno. La mia casata è caduta, ed io ho avuto la disgrazia di dover assistere alla sua rovina».
Alzò nuovamente lo sguardo al cielo.
«Padre, il Fato mi è avverso. La Fiamma si prende gioco di me, la Tenebra infonde potenza ai miei nemici, togliendoli dalla mia portata. Non ho la capacità né i mezzi per aiutare le persone che amo, né attuare la mia vendetta».
«Non ho intenzione di arrendermi, non finché avrò la forza di impugnare una spada, ma come posso sperare di ottenere giustizia quando i miei nemici sono Déi e tutto ciò che possiedo è una lama sbeccata?»

Appoggiò le mani al ballatoio, con trasporto.
«Stelle, voi che avete fatto del silenzio la vostra saggezza, ditemi cosa devo fare… perché io non lo so più» pregò.
Le stelle non risposero, ma continuarono risplendere di luce tremolante, bellissime e distanti.
Artan chinò il capo e chiuse gli occhi, sentendo improvvisamente su di sé tutto il peso della solitudine.


Edited by Dreyght - 13/3/2014, 22:10
 
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